Del lavoro e altri demoni 3

Laura NaselliArticoli, Riflessioni1 Commento

Per quanto ci si sforzi di far quadrare i numeri qualcosa sfugge sempre al nostro controllo e così il signor giudice era caduto nella trappola della malattia senza neanche rendersene conto. Sport, stile di vita sano, prolungati stazionamenti alle terme avevano rinforzato la sua fibra, irrobustito le sue membra e giocato a favore delle sue generali condizioni di salute. Gli ultimi quindici anni della sua esistenza sembravano uno spot di una casa produttrice di integratori per una lunga vita. Adesso giaceva in quel letto, le larghe spalle ossute si alzavano lievemente come ad inseguire un respiro che appena emesso avrebbe voluto tornare indietro a rianimare quel grande corpo spigoloso. Le mani spuntavano dalle maniche del pigiama, lunghe e scarne, le unghie perfettamente curate, rotonde e lucide, il letto ungueale di un pallore accecante. Di solito le teneva così, abbandonate accanto alle gambe nascoste dal cumulo di coperte, immote, talvolta potevi vedere sollevarsi un indice debolmente, ogni tanto un tremito incontrollabile le percorreva veloce; quelle mani che avevano firmato tante sentenze, che si erano alzate come rondini in volo accompagnando altisonanti discorsi, sottolineandoli, sorreggendoli.

Dal bordo rimboccato delle lenzuola bianche sporgeva il collo immerso nel colletto del pigiama di seta e sul collo si ergeva la testa appoggiata ai cuscini. Il viso era bianco come tutto il resto, segato in due dalla fessura delle labbra sottili e arrossate contratte in una smorfia di disgusto, risucchiate dal vuoto lasciato dalla dentiera che navigava tristemente nel bicchiere posto sul comodino. Il grande naso aquilino si dilatava intorno alle cannule dell’ossigeno, gli occhi spalancati, grigi, si spostavano da un punto all’altro della stanza, animati da un barlume di selvaggio desiderio di vita, la fronte alta percorsa da mille rughe sottili si perdeva nella chioma ancora folta, di niveo candore. Malgrado tutto il cancro. Malgrado tutto era arrivato, tardiva beffa ma, come sottolineavano in tanti, era arrivato veramente tardi, quando ormai comunque era molto vecchio e se l’era goduta la vita… altroché se se l’era goduta, bastava guardare la sua seconda moglie per farsene un’idea.

La sua quasi vedova sedeva compostamente accanto al suo letto in quella stanza che, per volere del Primario, gli era stata destinata, la migliore, abbastanza lontana dall’infermeria perché non venisse disturbato, provvista di due letti il secondo dei quali veniva con delicatezza rifatto ogni giorno affinché, se la signora ne avesse sentito l’esigenza, avrebbe potuto stendere le gambe. File interminabili di avvocati, giudici e quanti altri gravitavano nel mondo della giustizia, avevano percorso a passi marziali la corsia: si andava a trovare il grande vecchio che stava per togliere il disturbo, si preparavano discorsi, ci si inchinava al composto dolore della quasi vedova e, soprattutto, alla sua bellezza.

In quella stanza andavamo in visita quasi in punta di piedi, seguendo a passettini brevi le falcate del Primario, trattenevamo il respiro dinanzi all’illustre malato, evitavamo qualunque commento, qualunque sguardo o atti di deglutizione che potessero rivelare al morente la gravità delle sue condizioni; l’unico referente era il Primario che si era dichiarato pronto ad accorrere a qualunque ora del giorno e della notte. Personalmente la cosa non mi dava fastidio, anzi. Che se ne facesse carico lui; io, per conto mio, avevo già parecchie gatte da pelare, mi limitavo pertanto ad annuire con il viso irrigidito in una maschera di austera professionalità e prendevo appunti. Altri Colleghi apparivano meno soddisfatti, brontolavano, sbuffavano, si sentivano esautorati. In fondo alla fila si piazzava Filippo, il tirocinante.

Ricordo ancora il suo camice, portato da casa, di lino lucido e dolcemente rumoroso al tatto, nulla a che fare con i nostri camici da battaglia. Malgrado la sua statura non esattamente al di sopra della media si imponeva per il magico splendore dei suoi occhi azzurrissimi che spiccavano su un volto che sembrava intagliato nella lava, un ragazzo intelligente e preparato, forse un filino preso da se stesso e dai suoi studi presso l’Università Cattolica che aveva dovuto abbandonare per non si sa bene quali motivi accontentandosi di una più modesta Università del Sud.

Una mattina mi ero attardata, ero io che chiudevo la fila ossequiante e mi accorsi di Filippo e dei suoi occhi nei quali si era accesa una luce violenta e ammaliante. Egli era riuscito a piazzarsi alle spalle del Primario, si teneva rigido sui piedi rivestiti di raffinati mocassini lucidi, le braccia lungo i fianchi, il petto aperto animato da un respiro breve. Da quella posizione fissava anzi guatava la moglie del giudice. La donna, secondo il suo solito, si era appena appoggiata alla parete di fronte, sulla sua pelle di magnolia cominciavano a disegnarsi due fosche ombre dovute alle occhiaie che conferivano al suo sguardo malinconico un ché di cupo, vagamente libidinoso e disturbante. Ai lobi delle orecchie scintillavano due pendenti di diamanti, costosissimi, che avevano suscitato l’invidia di tutto il personale femminile del reparto; ogni tanto li scuoteva annuendo alle stupide parole inutilmente rassicuranti del Primario che non mancava mai di accennarle un baciamano prima di congedarsi dal suo famoso e sfortunato paziente.

La bruciante passione di Filippo per quella donna mi fu immediatamente chiara, egli l’amava e la desiderava con tutto il suo corpo e la sua anima. Non nutrivo dubbi in proposito. Un amore disperato e buttato al vento, a quanto pareva: la signora, infatti, aveva occhi solo per suo marito, ne accompagnava il doloroso tragitto verso la tomba con una tale partecipazione che quasi veniva voglia di ricoverare pure lei. Praticamente non si staccava dal suo capezzale tranne che per opportune soste a casa dove provvedeva alle necessità personali; dopo quei brevi intervalli tornava nella stanza del marito, elegante e profumata come se si recasse ad una della sue soirées di beneficenza, si piegava su di lui sfiorandogli la fronte con le labbra appena truccate e subito gli occhi del giudice si animavano con la soddisfazione di chi possiede una così graziosa e adorabile creatura.

I maligni sussurravano che non aspettava altro che la morte del marito per appropriarsi di una grossa quota ereditaria, che i figli di lui avuti dal precedente matrimonio, peraltro si fecero vedere pochissimo, la odiavano e che lei era soltanto una segretaria ignorante e schifosamente fortunata ma, lo ammetto, nulla nel comportamento della giovane donna diede mai da pensare a qualcosa di sbagliato o di mercenario in quel rapporto.

Ma la situazione stava precipitando, il giudice ormai non guardava più nessuno, nemmeno la sua bella e disperata moglie che si era ridotta ad un gomitolo di sofferenza e Filippo soffriva con lei. Il Collega si irrigidiva ogni giorno di più, il suo sguardo si era fatto cupo, si era inferocito come se fosse colpa nostra se le cose stavano andando male, c’era nel suo tono, le rare volte che comunicava, una nota accusatoria che stupiva gli altri che non si erano resi conto di nulla. Un giorno lo sentii singhiozzare dietro la porta del bagno, era troppo per me, mi allontanai in punta di piedi.

Una mattina la stanza era vuota, i letti disfatti, la consueta strana sensazione di perdita mi prese alla gola, mi accadeva sempre quando un letto che fino al giorno prima era stato abitato non ospitava più nessuno, se ne stava lì indifferente ad aspettare il prossimo inquilino.

In infermeria trovai Filippo, si teneva la testa tra le mani e fissava l’infermiere che preparava la terapia come se da quei gesti usati dipendesse il futuro del mondo.
Gettai lì qualche battuta sulla notte appena trascorsa, l’infermiere mi informò che il giudice si era semplicemente addormentato e che le arti del Primario non avevano avuto il potere di svegliarlo.
La quotidiana routine mi prese come al solito.

Qualche settimana dopo Filippo ci annunciò che lasciava il reparto, partiva per gli Stati Uniti per un master, a quanto pare avrebbe lavorato di notte e studiato di giorno o qualcosa del genere. Ci salutò con il consueto rigore, ringraziandoci garbatamente per l’accoglienza, quando i nostri occhi si incontrarono vi cercai dentro una complicità che non giunse. Il Primario gli diede una pacca sulla spalla, un gesto che sembrò assolutamente eccessivo data la formalità dei rapporti che Filippo aveva intrecciato con tutti noi. Ho idea che fosse contento che quel giovane severo e rigido come uno stoccafisso stesse per togliere le tende. Filippo incassò alzando per un momento il sopracciglio scuro, aristocraticamente.

Dopo, nessuna notizia ma….
a proposito: Filippo è diventato Primario di un grosso dipartimento di Malattie Oncologiche, il suo è un nome prestigioso.
Ha sposato la vedova del giudice che gli ha sfornato due figli.
Eh sì, per quanto ci si sforzi di far quadrare i numeri c’è sempre qualcosa che sfugge al nostro controllo.

Laura Naselli
N.B. i personaggi sono un prodotto della mia fantasia, le situazioni sono un collage di memorie e, in ogni caso, ogni riferimento a fatti o a persone reali è casuale.

Un Commento su ““Del lavoro e altri demoni 3”

  1. profmicio

    Racconto molto interessante e verosimile. Gli incontri che cambiano la vita possono avvenire nei modi e luoghi più inaspettati. Ciò che mi colpisce maggiormente è come, accanto all’ironia nei confronti di Filippo e della quasi-vedova, venga messo in evidenza con rispetto e delicatezza il ruolo del “grande vecchio” che ai miei occhi rimane il vero protagonista di questa storia.

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