Del lavoro e altri demoni 4

Laura NaselliArticoli, RiflessioniLascia un Commento

L’aria si era fatta tremolante, la vedevi vibrare intorno a te mentre ti azzardavi ad uscire di casa. Sto parlando di tanti anni fa, di quando un’ondata di calore senza precedenti e che sembrava non voler mai finire ci invase senza lasciarci scampo. A quei tempi l’aria condizionata era praticamente sconosciuta. Semplicemente se volevi un po’ di fresco aprivi le finestre negli uffici, nelle case, negozi o abbassavi il finestrino dell’automobile. Così era anche in ospedale, almeno in quello in cui lavoravo io. Ero molto giovane all’epoca, provvista di energie e buona volontà ma mi ritrovai a trascinare i piedi come tutti gli altri. Si boccheggiava, si sveniva, si stava a letto il più possibile aspettando che calasse la sera ma, in quei giorni, neanche il tramonto del sole garantiva un po’ di frescura, l’aria rimaneva immobile, calda, satura di un sentore di stagnazione, di morte.

Poi gli uccellini in via Etnea cominciarono a precipitare verso le basole roventi, ad un tratto smettevano di volare e si accasciavano con un flop secco.
Poi anche la gente cominciò a morire di ipertermia. Mi ricordo che nelle stanze di degenza c’erano dei piccoli climatizzatori di modesta fattura, con un ronzio fastidioso quanto cento alveari messi insieme lanciavano un getto di aria moderatamente fredda che non riuscivi nemmeno ad indirizzare bene per cui finiva sul malcapitato del letto accanto che cercava di ripararsi tirandosi il copriletto fin sopra la testa e non raggiungeva i letti appresso. Quando vennero accesi tutti contemporaneamente morirono in blocco nel giro di un paio di giorni come un esercito sfiancato da un faticoso cammino, ad uno ad uno smisero di ronzare e poi arrivò il silenzio. E nel silenzio si levò il fruscio dei ventagli che le donne di famiglia cominciarono ad agitare sul volto congesto dei loro poveri congiunti, un fruscio inesorabile che voleva esser una sfida alla morte ma che serviva solo a smuovere aria bollente. Noi eravamo stanchi e infelici, i camici di grossolano cotone pendevano sfiduciati dalle nostre spalle e, tra parentesi, ci somministravano un calore che si aggiungeva al resto rendendoci ancora più insofferenti.

Per ogni paziente con quarantuno di temperatura che giungeva al pronto soccorso ingaggiavamo una lotta strenua e il più delle volte inutile, la gente scottava talmente tanto che sulla sua pelle avresti potuto cucinarci un uovo, sembra terribile detto così ma questa era la realtà, drammatica.
Le flebo venivano tenute nel piccolo frigorifero di reparto che al quarto giorno minacciò di abbandonarci perché il motore era stato spinto al massimo. Le candele nelle case si scioglievano, i bambini piangevano notte e giorno, le nutrici perdevano il latte. Ben presto una rassegnata accettazione si insinuò negli animi e comunque presto o tardi sarebbe finita, il vento bollente che veniva dall’Africa si sarebbe stancato di sfiancarci, si trattava di aspettare con pazienza del tutto meridionale… caliti juncu ca’ passa a china… (piega la schiena e la piena del fiume non ti travolgerà… se ti pieghi non ti spezzi).

Così mi ripeteva il buon dottor Giovanni, ormai a fine carriera, le grosse spalle curve, il viso pallido sempre perfettamente sbarbato, il fazzoletto nel taschino della giacca azzurro polvere che indossava tutta l’estate anche con quelle temperature infernali. Ricordo ancora la calma con cui se la sfilava, l’attenzione che aveva nel riporla nell’armadietto prima di indossare il camice, le mani squadrate che passavano in rassegna le tasche del camice per controllare che ci fosse tutto, penna, taccuino per gli appunti, gli occhialini per leggere.

Saliva le scale verso il reparto lentamente, negli ultimi tempi più lentamente del solito, in effetti. Sorrideva gentilmente “Con questo caldo…” diceva e lasciava la frase a metà così ciascuno di noi accettava il fatto che Giovanni avesse un affanno più pesante del solito perché faceva caldo e ognuno di noi respirava con difficoltà e i turni pesavano il triplo rispetto all’anno precedente e che non venisse a nessuno in testa di darsi malato perché dovevamo resistere uniti, solo insieme ce l’avremmo potuto fare.
Un pomeriggio gli cadde la penna, atterrò con un voletto gentile accanto a me, mi chinai a prenderla e mi accorsi che i suoi piedi entravano a stento nei mocassini scamosciati che comprava in saldo a fine stagione. Erano gonfi come zampogne e il gonfiore si arrampicava su per le caviglie sparendo nei pantaloni dalla piega sempre inappuntabile.

La differenza d’età e una certa correttezza professionale mi impedivano di passare ad un tu colloquiale che mi sembrava inappropriato per cui accennai timidamente: “Dottore mi scusi ma mi sono accorta che ha i piedi un po’ gonfi.”
Sul suo volto passò un’ombra di stizza che mi fece mordere la lingua e aggiunse “Grazie per la penna, non ti dovevi disturbare”. Alle mie garbate proteste non fece eco, si girò stancamente e si avviò verso il reparto per il suo consueto giro di visita.

Io avevo fatto il turno di notte, ero allo stremo delle forze e volevo solo andare a dormire. Sulla soglia dell’ospedale incontrai un infermiere che mi disse “Forse, se Dio vuole…” Uscendo mi accorsi che qualcosa era cambiato, l’aria non tremava più e da qualche parte cominciava a levarsi un vento sottile e profumato. Grazie al Cielo l’ondata di calore sembrava al suo termine.

Ci volle qualche giorno perché le cose riprendessero il loro corso naturale, alcuni pazienti sopravvissero e vennero dimessi tra abbracci e lacrime di gioia, i condizionatori vennero riparati, il frigorifero riprese a funzionare e ciascuno aveva da raccontare qualcosa, di come si fosse svegliato in un lago di sudore che potevi strizzare il materasso, di come il cane si fosse buttato nell’abbeveratoio in campagna in cerca di refrigerio ed altre amenità del genere.

Solo l’affanno del dottor Giovanni non cambiò.
Il signor Primario rientrò dalle ferie, il poveretto aveva trascorso qualche giorno sulle montagne del Trentino che lì la sera ti dovevi proprio tirare la copertina di lana… eh sì… aveva saputo dell’ondata di caldo ma per fortuna era passata, peccato che la domestica avesse dimenticato di ventilare bene la casa e dentro faceva ancora caldo.
E gli parlai dei piedi gonfi di Giovanni. “Perché, non lo sai che è gravemente cardiopatico? Ci vorrebbe il trapianto, figurati, improponibile alla sua età.”
No che non lo sapevo e non lo sapevano nemmeno gli altri.

Quando l’affanno divenne palesemente intollerabile Giovanni rimase a casa, giungevano notizie contraddittorie al riguardo, si parlava di alti e bassi… la terapia giusta… un po’ di riposo… non si capisce perché ha voluto lavorare lo stesso con quel caldo bestiale.

Me lo vidi arrivare al pronto soccorso in quella notte di fine estate, i giorni roventi erano alle nostre spalle ma lui era zuppo di sudore, il viso mortalmente pallido, la mano convulsamente aggrappata al petto.

Abbiamo lottato tanto, è vero Giovanni?
Quella notte ci abbiamo provato mentre tua moglie se ne stava in un angolo mormorando una preghiera.
Ci siamo guardati negli occhi e il tuo sguardo era gentile e rassegnato. Eri pronto da tempo, lo sapevo ma ciò non mi impediva di essere disperata, una nuova, bruciante, umiliante sconfitta si profilava all’orizzonte mentre mi affannavo insieme al rianimatore intorno al tuo grosso corpo bianco, alle tue gambe gonfie, alle mani che diventavano sempre più scure e fredde.

“Oh…” dicesti e la tua mano tentò di correre al petto per un’ultima amorevole carezza al tuo cuore generoso ma non ne avesti la forza.
Buio.

Dopo non sapevo che fare davanti alla tua vedova, non sapevo se abbracciarla o stringerle la mano, rimasi così con le braccia penzoloni e gli occhi umidi di lacrime. Ero io quella in cerca di consolazione.

Ora che ci penso avevi l’età che ho adesso io, che strano Giovanni, adesso posso darti del tu.
Onore a te, Giovanni, e onore a tutti quelli che non hanno mollato, che hanno vissuto pienamente la vita e hanno compiuto il proprio dovere fino in fondo, con coraggio e umiltà.
Onore a te e a coloro che hanno affrontato la morte con un oh… sommesso e rispettoso davanti al mistero.

E, dimmi, mi hai perdonata?

Laura Naselli

N.B. i personaggi sono un prodotto della mia fantasia, le situazioni sono un collage di memorie e, in ogni caso, ogni riferimento a fatti o a persone reali è casuale

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