Milena non era una bellezza ma raramente gli uomini se ne accorgevano… ok… sto rubando l’incipit a “Via col vento” ma è talmente calzante che non ne ho potuto fare a meno.
Ricominciamo: Milena non avrebbe potuto fare la top model, infatti faceva l’infermiera, però piaceva, eccome se piaceva! Con i suoi capelli lunghi neri come la notte, morbidamente arricciati sulle spalle, gli occhi nocciola birichini, un nasino francese e un fisico rotondetto e invitante nei punti giusti. Milena era sposata e madre di due bambini, suo marito faceva l’impiegato non so dove, un giovane dinoccolato dall’aspetto serioso davanti al quale lei assumeva un’aria angelicata e un tono professionale da mammina e mogliettina perfetta. Con ciò non voglio dire che non lo fosse anzi l’aspetto assolutamente soddisfatto e compiaciuto del marito non lasciava adito a dubbi.
Ma quando il marito non c’era, pertanto nel novantanove virgola novantanove per cento del tempo, Milena tirava fuori la sua parte mister Hyde e si trasformava in una dea del sesso.
Il tutto accadeva in maniera garbata, senza chiasso, senza scandalo. Una girandola di maschietti le svolazzava intorno, mai una parola di troppo; era come se, usando un codice assolutamente maschile pertanto avulso da qualunque capacità di comprensione da parte dell’universo femminino (come direbbe il maestro Camilleri), gli uomini che la incontravano si alternavano in intimità con lei lasciandosi reciprocamente spazio. Prego… io ho fatto, adesso tocca a Lei… ma si figuri… è stato un piacere… in tutti i sensi. Come facesse a reggere quei ritmi era un mistero per tutti anche perché lavorava in reparto senza mai tirarsi indietro, lo giuro, è stata da sempre una delle migliori infermiere che io abbia mai conosciuto.
E poi era talmente carina e gentile con tutti, così disponibile, garbata e professionale che a tutto il resto non ci facevi proprio caso, alla fine erano pur affari suoi.
Al massimo ci si informava tra noi altre femmine… adesso con chi sta? Boh… mi pare il tizio… ma no! Che dici? Lo sai che hanno beccato Giuseppe seduto su un lettino e lei che gli stava praticando un massaggio al collo e non ti dico l’espressione di lui, pareva un neonato attaccato alla tetta… Giuseppe? Ma no! Anche lui? Non saprei… certo non facevano nulla di male però…
Insomma, le cose andavano più o meno così quando tra capo e collo ci capitò un primario ad interim, il nostro era ammalato pertanto, da un ospedale vicino, era giunto un tizio dall’accento lombardo, dal lungo camice che gli sbatteva sugli stinchi e dall’espressione raccolta. Ermenegildo Monachelli, lo chiamerò così. E già il nome era tutto un programma. Un uomo piccoletto che percorreva a passettini rapidi la corsia e si chinava sulle cartelle corrugando la fronte e piegando le labbra sottili in una piega amara come se ogni volta ne traesse pessimi auspici. Non vi dico la faccia dei malcapitati pazienti che aspettavano tremebondi ferali notizie. Dopo qualche minuto di religioso raccoglimento il dottor Monachelli riponeva la cartella nella sua custodia, fissava il paziente ormai ridotto ad uno straccio per la tensione e concludeva con un auguri! Era compito nostro accogliere quelle anime in pena e spiegare loro che le cose non andavano poi così male, anzi, tra due o tre giorni al massimo sarebbero stati dimessi.
Ovviamente si fecero subito delle scommesse su quanto tempo avrebbe resistito il nuovo arrivato al richiamo dell’infermiera sirena ma, ad onore di quest’ultima, va detto che Milena non sempre gradiva le attenzioni a lei riservate e se diceva no era un no garbato ma definitivo. Fu subito chiaro che Ermenegildo a Milena non piaceva. E siccome il medesimo stava sulle scatole a tutti, gongolavamo soddisfatti.
Altrettanto velocemente ci accorgemmo che il primario pro tempore era un uomo molto pio, e lì non ci sarebbe nulla di male ovviamente, ma il problema era che passava molte più ore a pregare nella piccola cappella dell’ospedale che nella sua stanza a firmare carte. La cosa cominciò a far girare gli zebedei a un paio di uomini, uno era un medico e l’altro faceva l’ausiliario, non si sarebbero potuti immaginare due uomini più diversi: il primo secco come una scopa ed un mento proteso da befana incavolata, l’altro grasso e villoso, poteva sollevare una vecchietta con una sola mano. Ex sessantottini, le avevano menate e le avevano prese ma in due fazioni opposte, si odiavano reciprocamente ma una cosa li univa: entrambi avevano quasi sicuramente goduto delle grazie di Milena e ciò aveva dovuto creare una sorta di strana complicità. E se non era successo c’erano andati vicino.
Sta di fatto che uno dei due, venendo meno al codice d’onore di un gentiluomo, parlò; forse parlarono tutti e due, forse non furono proprio espliciti fino in fondo ma ben presto Ermenegildo venne messo a conoscenza del fatto che oltre alle funzioni spirituali, nel reparto, se solo ci avesse messo un po’ di buona volontà, avrebbe potuto coltivare ben altre funzioni. Bastava impegnarsi un pochino e poi, che diamine! Lui era il Primario! Perché, diciamola tutta, questa nomina temporanea aveva fatto lievitare il dottor Monachelli ed era stato uno schiaffo in faccia al collega secco come una scopa. Povera Milena, nuvole nere minacciose si accumulavano sui suoi riccioli neri e lei non se ne accorgeva.
Accadde quindi che una mattina gli occhi di Ermenegildo di solito rivolti a terra in un gesto di umiltà o verso il cielo in cerca di ispirazione si posarono sul sedere di Milena e lì vi rimasero per un tempo oltraggioso. Mi beccai una gomitata d’intesa in un fianco che mi mozzò il respiro. Nei giorni successivi ci fu un gioco di appostamenti e fughe, di sguardi infuocati che cadevano nel vuoto mentre la cappella dell’ospedale rimaneva tristemente deserta. Milena, forse vagamente compiaciuta, resisteva e continuava a resistere. L’aria in reparto si era surriscaldata, le cartelle venivano scosse brutalmente dalle piccole mani di Ermenegildo che passava da un letto all’altro con la testa rivolta altrove e senza manco dire più auguri.
Passarono così alcune settimane, alcuni parlavano anche di mazzi di fiori fatti trovare davanti all’armadietto di Milena, di bigliettini appiccicati col nastro adesivo allo sportello dello stesso ma alla fantasia umana in questi casi non c’è limite. Comunque una cosa era certa: l’interessata aveva dichiarato alla sua più cara amica che mai e poi mai si sarebbe fatta toccare da quel baciapile.
Povera Milena, le nuvole nere ad un certo punto le riversarono addosso un torrente di pioggia tra tuoni e saette.
Un’anima pia un giorno prese il telefono e si lanciò in una sofferta e lunga confessione sui peccati carnali di Milena, da un lato del filo c’era il marito di lei, dall’altro un uomo dalla voce camuffata ma sembrava proprio che chiamasse da Milano. Dopo pochi giorni una Milena dimagrita, con i riccioli malamente raccolti in una coda di cavallo e le spalle curve chiese ed ottenne il trasferimento presso altra sede. Con lei se ne andò la luce dal reparto ed una grande tristezza si impadronì di tutti noi; una ingiustizia era stata commessa. Questa volta era Ermenegildo a gongolare.
Quella che sembrava soffrire di più era Filomena, la cuoca ausiliaria tutto fare, alta, sesta misura di reggiseno, ombra di baffi sulle labbra sfacciatamente tinte di rosso. Una donna sovradimensionata ma con un cuore gentile come quello di un pettirosso. Era stata la migliore amica e complice di Milena, sempre pronta a difenderla, a raccogliere le sue confessioni, a condividere risatine e sussurri. Inutilmente cercammo di farla parlare, volevamo notizie di Milena… come sta? …si è ambientata? E col marito come va? Filomena si era chiusa in un rancoroso riserbo.
Poi cominciò un’altra serie di appostamenti. Il facente funzione primario percorreva cupo la corsia, Filomena si affacciava sulla soglia dell’infermeria e lo seguiva con lo sguardo, gli piantava addosso due occhietti feroci truccati di azzurro che sembravano le canne di una doppietta.
Un pomeriggio ero in corridoio, stavo esprimendo qualche arzigogolato concetto ad una collega rompiscatole che mi chiedeva non so quale tipo di consulenza quando le porte dell’ascensore si aprirono e, a rotta di collo, uscì il dottor Ermenegildo Monachelli, il viso trasformato in una maschera dell’orrore, saltellava furiosamente di qua e di là biascicando vade retro! Lo seguiva Filomena, la tuta da lavoro sbottonata sull’enorme davanzale costituito dalle sue tette, in un angolo c’era Giuseppe, il portantino balbuziente che ripeteva “nnnnnon ho vissso nulla”.
I tre si allontanarono in fretta ciascuno in una direzione diversa. Io e la collega ci guardammo in faccia stupite, io avevo dimenticato il mio arzigogolato discorso e lei aveva appena scoperto che poteva fare a meno della mia consulenza. Ci salutammo gentilmente con la certezza che qualcosa di veramente grande era appena successo e che noi avevamo avuto il privilegio di assistervi.
L’indomani la direzione generale venne informata del fatto che il dottor Monachelli non aveva più intenzione di assolvere alle sue funzioni di primario ad interim, gravi e comprovati motivi familiari glielo impedivano.
Dal canto mio, adesso che sono passati tanti anni, mi chiedo che fine abbia fatto la sirena, e se continui a sorridere e ad incantare. Me lo auguro con tutto il cuore.
Laura Naselli
N.B. i personaggi sono un prodotto della mia fantasia, le situazioni sono un collage di memorie e, in ogni caso, ogni riferimento a fatti o a persone reali è casuale
Un Commento su ““DEL LAVORO E ALTRI DEMONI 5””
Delizioso, frizzante racconto che apre uno spiraglio su una realtà molto diffusa. Gradevolissimo il modo in cui viene messo in evidenza il delicato equilibrio fra ipocrisia e sfacciataggine.