Del lavoro e altri demoni

Laura NaselliArticoli, Riflessioni14 Commenti

Può capitare nella vita che si rimanga impigliati nei propri pensieri, sottili e striscianti si fanno largo tra le circonvoluzioni cerebrali fino a quando trovano il posto giusto per annidarsi e da lì, con logica militare, mandano in avanscoperta manipoli dei più coraggiosi tra di essi.

All’inizio sorridi di questi piccoli insignificanti attacchi, sai benissimo di poterli dominare, ti liberi di loro con un’alzata di spalle, con un gesto della testa carico di fastidio, in effetti non hai tempo per occupartene, sono inezie, niente di più e loro avanzano. Un giorno comprendi che quello che pensavi fosse il tuo spazio non esiste più, il terreno è impestato di erbacce virulente, radici contorte hanno divorato tutta l’energia, tu non sei più preda dei tuoi pensieri, tu sei i tuoi pensieri.

Nel mio caso erano faccende di lavoro, turni in ospedale, cartelle da compilare con cura, invidie tra colleghi sopite ma non troppo che periodicamente esplodevano con la cadenza di una epidemia influenzale. Non ricordo nemmeno se li detestassi o semplicemente mi sforzassi di ignorarli, tanto meno ricordo l’effetto che facevo su di loro. Il tempo, si sa, è galantuomo.
E comunque non ero di certo migliore di loro. Ma era così ogni giorno: l’armatura antiurto indossata ad ogni timbratura di cartellino, lo schiocco leggero del segnatempo che mi sembrava uno sghignazzo feroce in entrata e un grido di sollievo in uscita.

La via del ritorno punteggiata di tornanti immersi nella nebbia mi restituiva per un attimo alla libertà, abbassavo il finestrino respirando a pieni polmoni l’aria fredda e umida d’inverno, rovente d’estate, mi piacevano anche gli spruzzi di pioggia sul viso. Era fatta, avevo ancora compiuto il mio dovere in scienza e coscienza, adesso che se ne occupassero gli altri, io avevo già dato.
Adesso avevo amici da incontrare, libri da leggere, cene da gustare, shopping, cinema e non si può sempre pensare al lavoro!

La vita è fatta per essere vissuta, hai studiato mia cara Laura, ti sei impegnata, hai superato un concorso e adesso raccogli il frutto dei tuoi sforzi. D’altra parte non sempre tutto riesce al meglio, come si suol dire non sempre le ciambelle riescono col buco e quindi, per quanto ci si sforzi alcune cose vanno bene, altre male, altre benissimo e altre malissimo. Essere maturi e crescere in questo lavoro significa confrontarsi con questa semplice realtà, accettarla per quello che è e andare avanti in scienza e coscienza, ovviamente. Allora perché mi svegliavo la notte in preda a timori senza corpo? Perché superato l’ultimo tornante pensavo alla strada appena percorsa e mi rivedevo rifarla al contrario? Anch’io persa nella foresta di erbacce e radici contorte e più mi dibattevo più restavo impigliata.

Poi un giorno, anzi una notte, arrivò lei.
Potrei anche chiamarla Clementina, il nome ormai non ha alcuna importanza.

Non mi pare che fosse una notte di quelle memorabili, tutto scorreva liscio come l’olio. L’accompagnarono dei vicini di casa, aveva trentacinque anni e ne dimostrava cinquanta, il volto arrossato dalla malattia autoimmune che la divorava da qualche anno e che le avevamo diagnosticato da tempo. All’epoca la terapia fondamentale era a base di cortisone, le aveva allungato la vita e ridotto i dolori ma era diventata diabetica. Da qualche giorno, a causa di un’ infezione sovrapposta, le era venuta la febbre alta e la glicemia si era innalzata pericolosamente. Intimidita all’idea di aver disturbato i vicini e i dottori così tardi, cincischiava con le sue mani deformate tra i flaconcini dell’insulina con i quali aveva pasticciato al punto tale che non ci si capiva più nulla. Pazienza. Mi ci volle tutta la notte per farle scendere temperatura e glicemia, all’alba lei riposava io ero sfiancata. Mentre andavo via incrociai un vecchio infermiere, due battute, la rassegnata certezza di chi percorre sempre gli stessi corridoi, di chi compie sempre gli stessi gesti “Ah, Clementina! – esclamò dando un’occhiata alle cartelle della notte e aggiunse – questa poveretta non ha pace. Sua madre è morta mi pare l’anno scorso e lei è rimasta sola. Malata, brutta e un poco stupida com’è chi se la piglia? Pima andava a fare i servizi ma penso che ormai non ce la fa più, dicono che riceve uomini a casa… ha capito… poveracci come lei.”

Avevo qualche giorno di riposo e mi lasciai tutto alle spalle compresa Clementina. Al mio ritorno era ancora là e stava peggio a causa di alcune complicanze, una dietro l’altra. Dopo una seria valutazione congiunta ci rendemmo conto che stava per arrivare al capolinea anzi, come diceva quel vecchio infermiere, aveva staccato il biglietto… quello per la barca di Caronte. Un pomeriggio mi aggiravo nella stanza dove era ricoverata, occupandomi della sua vicina di letto e le vidi fare quel gesto. La sua mano scarna debolmente rivolta verso di me, un cenno per attirare la mia attenzione.

Quando mi rendevo conto che le cose volgevano in modalità male, forse malissimo, cominciavo ad assumere un tono amorevolmente distaccato; non so come spiegarmi, ma la certezza che non c’era un granché da fare mi sfiniva, mi svuotava di energie, mi consegnava ad una paralizzante sensazione di impotenza. Lottavo contro queste sensazioni cercando di impegnarmi al massimo, di trasmettere ottimismo e fiducia ma qualcosa in fondo ai loro occhi mi spaventava e mi imbarazzava, un “vorrei tanto crederti ma mi stai prendendo in giro perché oramai lo so che per me non c’è più nulla da fare e allora non sfoderare quel sorriso di circostanza tanto non ti credo, tu rimani io me ne vado e non capisco perché, non vedo l’ora che sia finita aiutami ti prego non mi fare andare via ma se devo ancora soffrire…” Basta, basta, basta. Le erbacce mi stritolavano, le radici maligne rallentavano il mio respiro. Quindi mi avvicinai a lei e dovetti chinarmi quasi a sfiorare la sua bocca con l’orecchio, una confessione.

E la sua fu una domanda semplice “Dottoressa, sto morendo, vero?” La mia risposta fu inequivocabile, netta, sicura di chi ha studiato e possiede scienza e coscienza : “Ma no!”
Lei ebbe un sorriso timido e ricominciò a mormorare, i suoi occhi si mossero in fretta intorno come ad assicurarsi che nessuno ci potesse sentire: “Ho una bambina di sei anni, l’ho messa al collegio e devo sapere perché se io me ne vado questa bambina non ha nessuno, ha capito? Però se io lo so sistemo le cose. Ci sono persone fidate e sto tranquilla e me ne vado tranquilla.”
E mentre una mano mi stritolava il cuore le mormorai: “Pensa alla bambina.”
“Grazie” soffiò debolmente e non mi rivolse mai più la parola.

Qualche giorno dopo c’era una strana agitazione intorno al suo letto, una coppia di persone di mezza età, dei signori vestiti di scuro dall’aria professionale, mi tenni alla larga.
Si era insinuato un altro sospetto in me, un’erbaccia mi suggeriva insistentemente che mi ero comportata male, ma proprio male a togliere speranze ad una donna di trentacinque anni. Non si agisce così Laura… non si fa così.

Gli accordi vennero presi, le carte firmate e gli eventi subirono una brusca accelerazione. Il punto di rottura apparve minaccioso al suo capezzale: siringhe, flebo, farmaci salvavita, ecocardiografo, rianimatore, mani indaffarate, spalle alzate come a dire resiste perché è giovane ma ormai che possiamo fare? Ormai. Gli occhi di Clementina si stavano velando e apparve quella luce fioca che ho visto decine e decine di volte, quel lumicino acceso sull’abisso al cui bordo mani sempre più deboli sono pronte a mollare la presa per permettere il grande salto, la fine di ogni sofferenza, l’inizio.

L’inizio.
Presa da un’ansia improvvisa mi chinai su di lei cercando di catturare il suo sguardo prima che fosse troppo tardi e i suoi occhi incontrarono i miei, per un attimo, e alla mia muta domanda rispose con un lieve cenno della testa, un cenno d’assenso.

Ti consegnammo alla morte, Clementina, le nostre mani si ritrassero, gli aghi vennero staccati, le membra composte, ordinari gesti di pietà ordinaria.
Quel pomeriggio, era tarda estate, me ne andai al mare. Il groviglio dei miei pensieri sembrava passato dalle amorevoli cure di un gattino capriccioso, e mi rendevo conto che non avrei mai e poi mai trovato il bandolo della matassa.

Il mare era calmo, la spiaggia pressoché deserta e mi sedetti a guardare le onde piatte che si spegnevano pigramente sul bagnasciuga.
E in quel momento le erbacce si appiattirono, i rami cominciarono ad allontanarsi uno dall’altro mentre il sole al tramonto veniva a scaldarmi il cuore e il mare si insinuava lento tra i miei pensieri, consolatorio.

Omaggio al tuo coraggio Clementina e un po’ anche al mio.
Buona fortuna

Laura Naselli

 

14 Commenti su “Del lavoro e altri demoni”

    1. laura

      con te gioco in casa visto che sei mia sorella 🙂 credimi ci sono migliaia di medici in questo mondo che vivono il loro lavoro con empatia
      grazie

  1. gabriella zagaglia

    Quando il fare quotidiano svela sorprendentemente i misteri dell’essere. Tutto torna, compresa la fluida ineluttabilità della vita. Possiamo anche ingannare le nostre emozioni, a volte. I tuoi “tornanti”, i tuoi ” grovigli” Laura, continueranno a tenderti agguati. E gli occhi della gente, affonderanno con più incisività nei tuoi, fino a scorrere nelle tue vene e risalire. Fino a graffiarti il cuore. Lavoro come te, in ospedale. Ho visto molto , ho chiuso gli occhi a volte. Ho dato e negato, ma il mio cuore mi ha insegnato a voltarmi indietro. C’è bisogno di pace in questi luoghi, coscienza. C’è bisogno di amore. Tu hai tutto questo, grazie.
    Gabriella Zagaglia

    1. laura

      sì cara Gabriella, c’è bisogno di pace… quella che nasce dalla radicata certezza della nostra transitorietà e, allo stesso tempo, della nostra incisività sulla terra nel tempo che ci è stato dato…ti ringrazio dal profondo del cuore per il tuo dolcissimo commento
      laura

  2. Fiammetta Altadonna

    “…e mi sedetti a guardare le onde piatte che si spegnevano pigramente sul bagnasciuga.”
    così come quelle di una asistolia… che a volte diviene liberazione, diviene pace, diviene finalmente serenità! Guardare ad essa come al mare calmo del meriggio… e in fondo credo proprio che le “nostre Clementine” potremmo scorgerle tutte ancora lì, sulla linea dell’orizzonte, sulla linea di confine fra mare e cielo, dove il nostro cuore si tuffa ogni volta che scrutandola riflettiamo sulla nostra vita.

    1. laura

      “le nostre Clementine”…che ci ricordano la nostra caducità e, allo stesso tempo, cin invitano a vivere pienamente ogni minuto che ci viene concesso con consapevolezza
      grazie
      laura

  3. Rosa Rita Minniti

    Decidere di studiare medicina è anche confrontarsi ogni giorno con il nostro super io e prendere atto del nostro essere inadeguati.

    Confrontarsi con il limite dell’esistenza è frustrante e non da pace , il racconto mette bene in evidenza questo limite e il dolore di prendere atto che nonostante l’impegno, la fatica , l’amore il filo della vita non ci appartiene.
    Solo ci appartiene di distrarci per recuperare e continuare a pensare al bello ….
    Brava Laura continua

    1. laura

      Cara Rosa il limite…hai detto bene eppure sono convinta che ricordare una persona, i suoi occhi, il suo grande coraggio sposta questo limite sempre più avanti. Lasciare questo piano esistenziale non significa sparire, almeno questo è il mio pensiero, significa semplicemente cambiare livello energetico, assumere consapevolezza, dilatarsi nel tempo e nello spazio e in altre dimensioni a noi sconosciute ma tutte da scoprire.
      grazie Rosa…continuerò e Tu continua a seguirmi, i tuoi consigli mi sono preziosi
      un bacio
      Laura

  4. Antonino Piangiamore

    Innanzitutto complimenti per la scrittura. Al giorno d’oggi è già difficile che qualcuno riesca a scrivere correttamente in italiano, che sia capace di evitare anacoluti e ripetizioni, che non faccia ricorso ad espressioni banali e abusate.
    Qui, però, c’è di piu : c’è la capacità di cogliere le sfumature, senza fermarsi alla superficie delle cose, riuscendo a fornire al lettore la cifra d’ interpretazione dei personaggi. Vi è certamente, in questo racconto, il.portato dell’esperienza professionale di Laura, della sua grande bravura e della sua dedizione al lavoro. Ma c’è anche, io credo, qualcosa della sua esperienza di pittrice, che si manifesta nella capacità descrittiva e oserei dire cromatica della narrazione. Grazie per averci regalato questo scritto e ancora complimenti.
    Antonello Piangiamore

  5. laura

    Ciao Antonello, è stata una gioia ritrovarti!
    Grazie per il tuo commento che , e non poteva essere altrimenti, ha delle sfumature tecniche rilevanti.
    Sono da sempre convinta che la lingua italiana con le giuste concessioni e aperture ad altri sistemi linguistici, sia una delle più belle al mondo…Dante Alighieri docet! Mi addolora leggere perché scritto XK o sei, voce del verbo essere, scritto 6 per non parlare di altri orrori ma questa è la realtà e allora difendiamo, proteggiamo, amiamo la nostra lingua!
    Adesso seppellisco l’ascia di guerra. Grazie anche per il tuo accenno ai miei trascorsi pittorici, trascorsi e basta ma un giorno magari quando avrò finito di viaggiare,,,chissà.
    Ricordi? Eravamo una bella squadra, ho ricordi bellissimi e spero che sia così anche per te.
    Ti abbraccio affettuosamente
    Laura

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