“En garde!”, come al solito si svegliò di colpo coperto da un sottile sudore di odore sgradevole.
Da quando Elena gli aveva fatto i bagagli sbattendolo fuori di casa e portandogli via Stella, Armando dormiva da solo e, soprattutto, dormiva male.
Stretto com’era tra i turni nel laboratorio dell’ospedale e i turni per vedere sua figlia, Armando aveva la sensazione di una vita claustrofobica, oberata dai doveri di patologo clinico e quelli di padre. A quelli di marito ci aveva rinunciato da parecchio, se non fosse stato per l’assegno che doveva passare ad Elena ogni mese a ricordargli che un tempo era stato un uomo sposato, avrebbe avuto la sensazione di non essere mai uscito da quella casa di mamma e papà dove, lo ammetteva a malincuore, aveva vissuto i migliori anni della sua vita, per dirla con Renato Zero.
Timido e allampanato non riusciva a farsi una ragione della capacità che aveva avuto di conquistare la più bella del reame, la figlia dell’avvocato A… che lo aveva sprezzantemente guardato dall’alto in basso anzi dal basso in alto date le sue minuscole proporzioni, prima di concedergli la mano della bella Elena. Elena era stata ai patti, almeno all’inizio, si era comportata da brava moglie, deliziosa creatura salottiera, ottima cuoca e gli aveva sfornato Stella, così disgraziatamente somigliante a suo padre pertanto lunga lunga, dotata di un naso che non si sarebbe definito meno che importante e fieramente triste.
Da quel momento Elena era cambiata, non si capiva se ce l’avesse con lui o con se stessa ma il risultato era stato che Armando aveva finito con il tradirla, con una ausiliaria… la sguattera… come era stata immediatamente definita dalla famiglia riunita, la famiglia di Elena perché i suoi erano morti da un bel po’ e lui era figlio unico.
Elena lo aveva scacciato di casa e aveva trasformato la triste Stella in una macchina da guerra le cui esigenze di cultura e sport lievitavano come il pane, l’ultima era la scherma. Armando, periodicamente invitato ad assistere alle modeste prestazioni della ragazzina, se lo sognava giorno e notte quell’en garde! Per lui erano solo soldi che uscivano allegramente dalle sue tasche per non tornare più indietro.
Affabile e malinconico come sempre passò il badge in entrata rispondendo con un lieve cenno d’intesa agli altri che entravano a lavoro o quelli che con le occhiaie alle ginocchia tornavano a casa.
A passo misurato raggiunse il laboratorio, una serie di anguste stanze poste al seminterrato dove i neon erano accesi giorno e notte, il ronzio delle macchine lo salutò garbatamente.
Benché avesse brillato nelle cliniche, Armando aveva preferito il laboratorio d’analisi, lì i rumori della vita arrivavano ammorbiditi dalla distanza, privati di pathos. Per lui quelli erano soltanto valori, numeri, che fossero alti o bassi che gliene veniva, in fondo? Scrupoloso fino all’eccesso non tardava mai nel comunicare valori esagerati in una o l’altra direzione al medico di turno del reparto interessato, per questa sua abitudine aveva indirettamente contribuito a salvare qualche vita ma aveva anche finito col guadagnarsi la fama di menagramo.
Non c’erano facce dietro i numeri, non c’erano cattive notizie da comunicare ai diretti interessati, non gli arrivava l’onda lunga della soffocata protesta o, più raramente, della gratitudine.
Non si arrabbiava mai per il sovraccarico di lavoro, non si ammalava mai, non sapeva nulla di gossip ospedaliero e, se non fosse stato per quella strana e breve parentesi amatoria che peraltro si era affrettato a confessare alla moglie in preda ad infiniti scrupoli, lo si sarebbe detto un misantropo.
L’unica sua passione, molto tiepida era per la squadra dell’Inter ma il destino lo aveva inserito in un mondo di juventini per cui la viveva in silenzio e tante volte dimenticava di guardare le partite.
Andava in ferie perché glielo imponeva la direzione sanitaria, negli ultimi anni il fatto di doverle trascorrere in parte insieme a Stella che ogni giorno gli era sempre più estranea, lo rattristava ancora di più.
Salutò in cuor suo le macchine, ripose la giacca e infilò il camice immacolato. Passò in rassegna la sfilza di provette che lo attendeva, soldatini vincenti o perdenti che sarebbero passati dalle sue grandi mani dalle dita lunghe e gentili, mani da pianista le aveva definite l’ausiliaria.
Le sfiorò con delicatezza, gli sarebbero mancate.
Ne aggiunse una.
Il cicaleccio delle dottoresse presenti non lo distrasse neanche un pochino, le “ragazze” come amava definirle malgrado qualcuna di loro fosse prossima alla pensione, si scambiavano a voce ricette e confidenze più o meno sentimentali e avevano imparato a fare e dire come se lui non fosse presente. La cosa lo faceva sorridere compiaciuto, in fondo amava questa vita che gli aveva concesso di essere appena marginale. L’unico problema era arginare le pretese di Elena che gli arrivavano puntuali attraverso le infinite e poliedriche necessità di Stella.
Temeva di non farcela economicamente ma soprattutto di rinsaldare nell’animo della figlia l’idea di poter ottenere tutto quello che voleva con una semplice telefonata se non con un messaggio su Whatsapp.
Ma forse anche questo stava per finire.
Con calma e attenzione preparò lo striscio e lo pose sotto la lente del microscopio. Si tolse gli occhialini badando bene e non sporcali con le dita e chinò il capo.
Le strane forme che avevano i suoi globuli bianchi possedevano una loro particolare, sfolgorante bellezza.
Rimase a lungo affascinato dalla bizzarria della vita riflettendo su quel suo midollo osseo che un giorno, probabilmente non molto lontano, aveva deciso di cambiare linea di produzione concedendosi nuove sperimentazioni, salti quantici, scombinate variazioni sul tema. E ancora una volta s’inchinò alla volontà della natura e alle sue imprevedibili decisioni.
Con calma sfilò il vetrino dal supporto, lo etichettò e lo ripose con cura, il chiacchiericcio delle ragazze lo colse di sorpresa perché per un momento, ma solo per un momento, aveva pensato che il tempo si fosse fermato e che la terra avesse rallentato il suo moto di rivoluzione. Ovviamente, e per fortuna, non era così.
Per fortuna di Stella, naturalmente, alla quale erano concessi decenni su decenni, grazie a Dio.
Quanto lui, conosceva bene quelle cellule, ne aveva incontrate talmente tante nella sua vita ed era stato un bravo allievo nelle cliniche, sarebbe potuto diventare un ottimo medico di corsia se soltanto lo avesse voluto.
La grande stanchezza che gli aveva tenuto compagnia nelle ultime settimane arrivò come un’onda improvvisa, uno tsunami che non ti aspetti e che ti sorprende per la sua forza devastante.
Si avviò lentamente verso la stanza del direttore, forse andava informato ma, grazie al Cielo, non c’era nessun medico di reparto da mettere in allarme, non per quella volta.
Però era giusto informare affinché non ci fossero vuoti, difficoltà nello stilare i turni per i mesi o, meglio, le settimane a venire.
Sulla porta del direttore sorrise di se stesso “En garde, Armando”, si disse e bussò educatamente.
N. B. In memoria dei Colleghi di laboratorio che si sono autodiagnosticati malattie drammaticamente incurabili e hanno sorriso alla morte.
Laura Naselli