La realtà è solo un’interpretazione

FABIOLA ABATEArticoli, Racconti, RiflessioniLascia un Commento

Mamma…ma Babbo Natale esiste?”

Certo, fino a quando tu ci crederai.”

Aveva sette anni mia figlia quando mi chiese ciò e questa risposta in quel momento le bastò, non mi domandò altro. Ricordo che da quella volta, trascorse qualche anno ancora finché l’omone dalla barba bianca smise definitivamente di passare per lasciare doni sotto l’albero di lei e quindi di tutti gli altri bimbi del mondo nella notte del 24 dicembre.

Tempo fa stavo scrivendo seduta al computer ed ascoltando musica, ma poi ho alzato gli occhi rivolgendo lo sguardo oltre i vetri della finestra situata ad un paio di metri da me. Il cielo era particolarmente nuvoloso, ma non completamente coperto e lasciava la possibilità al sole di manifestarsi a momenti con tutta la sua luminosità, per poi ritrarsi e uscire di nuovo, alternandosi con un ritmo molto lento, in similitudine con l’andamento delle nubi mentre andavano tutte verso la stessa direzione.

Musica e cielo pareva si muovessero con identico ritmo in magica sinergia, quasi a sembrare la medesima cosa. Come fossero le nuvole a produrre i suoni o, viceversa, ad essere sospinte dall’armonia. L’albero più vicino ai miei occhi aveva i rami che danzavano carichi di foglioline verdi vibranti ed il movimento di queste era più veloce di quello delle nubi, sicuramente in sintonia con il motivo interpretato dal suono dei flauti, le cui note volteggiavano tra quelle più lente degli altri strumenti che le accompagnavano.

Note che salivano nello stesso momento in cui altre scendevano, che giravano intorno ad alcune, che si susseguivano velocemente saltellando sopra quelle ferme, che si interrompevano per dar spazio alle altre e si rituffavano dentro all’unisono per poi divaricarsi nuovamente, come i rami dell’albero. E mi chiedevo se era il movimento di questi ultimi a suonare o se era la musica a sostenerne la loro danza, tanta era la sensazione che ciò che vedevo fosse in profonda relazione con quel che ascoltavo.

Notai un gabbiano volteggiare oltre la chioma arborea, prima dei palazzi che superano la piazza, quelli che nascondono totalmente la visuale del mare. Si spostava anch’esso in accordo con la musica. A tratti, quando muoveva le ali, viaggiava allo stesso ritmo dei rami; quando invece le teneva ferme e distese, planava lentamente in sincronia con l’andamento del cielo. Poi scomparve ai miei occhi uscendo dai confini del vetro della finestra, anche se poco dopo era di nuovo lì ad attraversare lo spazio dirigendosi dal basso verso l’alto, per poi riandare via, tornare di nuovo ed uscire ancora una volta dalla mia visuale.

E nuovamente mi chiedevo, come per i rami e per le nubi, se fosse lui a creare la musica o se invece quest’ultima accompagnasse il suo volo sospingendolo con il suono. E, ancora, se tutto fosse dentro di me o io lì fuori, tanto era forte il sentirmi in armonia con ciò che vedevo e che ascoltavo perdendomi dolcemente in quel benessere ove semplicemente mi sentivo cielo, musica, gabbiano, albero.

Cosa era vero di tutto ciò?

Uscendo frequentemente nel pomeriggio dalla scuola de Le Cinciallegre, qualche anno fa, trovavo il tragitto più lungo della mia giornata, quello che mi riconduceva a casa, e lo attraversavo prestando attenzione ad ogni suono che sentivo. Soprattutto a primavera inoltrata, la discesa alberata era un concerto di uccelli e fruscii di vento leggero tra i rami. Potevo anche ascoltare i miei passi su quella stradina un po’ asfaltata ed un po’ interrotta dalle radici alla base dei tronchi che fuoriuscivano creando dossi, crepe, buche, sbriciolamento di asfalto, brecciolino e terra. Allora le scarpe che calpestavano ora parti più lisce, ora parti più sconnesse, propagavano i suoni più svariati e, quando era il pietrisco minuto a vibrare sotto le suole, provavo all’ascolto una sensazione talmente intensa e piacevole, che mi sembrava entrasse anche per il naso fino in gola e dentro l’esofago, quasi a percepirne il sapore polveroso. Ed uscita dal grande cancello mi immergevo nei suoni della città.

La chiesa di S. Paolo puntualmente a quell’ora attivava la sua campana accompagnando il traffico intenso dei mezzi di locomozione sulle strade, dove ogni automobile ha il proprio caratteristico rumore, che varia di timbro e di intensità anche a seconda che stia partendo lentamente o passando velocemente. Il suono delle sirene dei veicoli per le emergenze, invece, sovrastava su quello dei motori degli autobus alimentando il frastuono generale.

Sovente mi divertivo a focalizzare un’unica sensazione acustica nella moltitudine quasi a non sentire altro che quella, come la voce di un passante in conversazione, o le risa di un bambino oppure il suo pianto, l’abbaiare di un cagnolino al guinzaglio, il fischio di qualcuno, lo stereo di una macchina con i finestrini aperti, le parole in dialetto e quelle in lingue a me sconosciute (Roma ne offre di tutte le nazioni del mondo) o la metropolitana, quella che al passaggio fa tremare la strada, i piedi ed i cui suoni cambiano e sono diversi a seconda del punto di ascolto in cui ti trovi.

Talvolta a quel tempo, in questo tragitto, mi divertivo facendo un gioco ed una sensazione bellissima, incredibile e magica si impadroniva di me: mettevo gli auricolari collegati ad un lettore musicale e tutto cambiava in un istante. Ascoltando un brano strumentale rilassante e distensivo, ciò che mi era intorno ed in perpetuo movimento, improvvisamente scorreva senza audio in un chiassoso silenzio, mentre la melodia che mi entrava intensamente dentro, era in profondo contrasto con i ritmi esterni più veloci. Mi sembrava di camminare a dieci centimetri sopra terra e quel che accadeva apparentemente al di fuori di me, appariva quasi irreale. Questo era talmente coinvolgente che dopo un po’ non riuscivo più a controllarne l’esatta dimensione, al punto di confondere l’andamento delle due parti, quello del mio corpo e quello di tutto ciò che mi circondava.

Bastava però cambiare musica per stravolgere di nuovo ogni cosa, come ad esempio una canzone gioiosa dai ritmi più veloci, che mi faceva sentire immediatamente molto allegra e con un’energia addosso che non è certo quella che si ha verso la fine della giornata! Tutta la gente a quel punto pareva avere la mia stessa vitalità, il mondo mi sorrideva ed io ad esso. Mi ci sentivo dentro mentre vi camminavo, con una gran voglia di accoglierlo e con l’entusiasmo di chi lo ama così com’è.

Se invece si trattava di una musica dolce e magari anche lievemente malinconica, lo stesso scenario tornava a muoversi più lentamente e mi rendeva capace di cogliere la poesia nei volti e nelle azioni della gente, nei colori delle cose e nel movimento dell’aria percepito con il volteggiare delle foglie tra i rami, con la danza del polline dei platani o con il volo di qualche foglio di giornale inizialmente dimenticato sulle panchine e trascinato dal venticello.

Ma quale di questi scenari era quello reale?

Tempo fa mi è capitato di constatare che certe situazioni opprimenti che vivevo si fossero ad un certo punto assottigliate per merito di alcuni cambiamenti che credevo oggettivi, cioè intervenuti al di fuori di me, lasciandomi dolcemente pervasa da profonda leggerezza. Con uno sguardo più attento però, mi sono accorta che era soltanto mutato il mio modo di vedere le cose in quel contesto e la mia relazione con esse. Improvvisamente, e quindi solo in conseguenza di ciò, non erano più le stesse, come se quelle di prima fossero sparite tirandosi dietro tutta la pesantezza che mi aveva fatto soffrire tanto a lungo.

E allora cos’è la realtà, soltanto l’interpretazione di quel che vedo e che sento?

Ma se esiste unicamente in questa misura, ognuno ha la propria e può mutare in qualsiasi momento quando cambia la nostra lettura, magari influenzata da emozioni eccessive e dall’ego o, diversamente, quando questi ultimi non prevalgono su di noi, più serena. Di sicuro però mai giusta o sbagliata, ma semplicemente quello che è: un’interpretazione, ed è in questa realtà che scorre la nostra vita.

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