Il Buddismo parla spesso del concetto di “sacralità della vita“, tuttavia è molto difficile comprendere profondamente ciò che può essere considerato l’atteggiamento corretto davanti a decisioni etiche come quelle dell’eutanasia, di cui se ne sta parlando ultimamente. Un’Italia spaccata in due che crea, per l’ennesima volta, solo confusione!
Riporto un breve testo tratto da alcuni studi sugli scritti di Nichiren Daishonin, il Budda che ha fondato l’insegnamento a cui attingo, premettendo personalmente che il dubbio, riguardo all’argomento eutanasia resta ancora vivo dentro di me.
Da “Buddismo e Società”, n. 131:
Lo sviluppo odierno della medicina ha reso possibile il prolungamento artificiale della vita, aprendo una serie di questioni difficili da risolvere, come quelle della morte cerebrale o dell’accanimento terapeutico, arrivando a rendere problematica la definizione stessa di vita. Ad esempio, si può definire vita a tutti gli effetti quella di chi ha perso il controllo psico-fisico di sé? Come valutare un eventuale testamento biologico di chi, in possesso delle proprie facoltà mentali, si appella alla cosiddetta “morte dignitosa” rifiutando su di sé il prolungamento artificiale della vita che ne intacchi la dignità, richiedendone l’interruzione in condizioni di non autosufficienza grave?
Secondo il Buddismo, “la dignità della vita” consiste nel
manifestare la sua natura fondamentale (vero io). Nel corso dell’esistenza noi
“completiamo” la nostra vita, la manifestiamo pienamente, e quindi,
come scrive Ikeda, «la decisione di quando terminare la vita deve essere lasciata alla vita
stessa, non alla ragione o ai sentimenti».
È un’affermazione che induce ad approfondire la riflessione, per non giudicare
la vita in base a ragionamenti dogmatici o “categorici” e per apprezzarne
pienamente la grandezza. E ancora dice Nichiren: «È raro nascere umani. Il numero
di coloro che sono dotati di un corpo umano è piccolo come la quantità di terra
che può stare su un’unghia. E mantenere in vita un corpo umano è difficile come
per la rugiada restare sull’erba. Ma è più importante vivere un solo giorno con
onore piuttosto che vivere sino a centoventi anni e morire in disgrazia.»
In questa lettera il Budda Nichiren afferma che è più importante vivere un solo
giorno con onore piuttosto che vivere a lungo inutilmente. Sembrano due
concetti in contraddizione, ma il messaggio è: non confondere l’obiettivo
primario e quello secondario. La salute e la longevità non hanno valore di per
sé, ma servono per vivere in maniera significativa. Non risparmiarsi significa
quindi vivere “accumulando i tesori del cuore”, valorizzando la propria vita e
avendo a cuore quella altrui in quanto manifestazioni della Legge mistica, e
ciò significa manifestare pienamente la propria umanità.
Negli ultimi giorni ho letto molto sull’eutanasia, per capire come la gente sente questo argomento, anche perchè io, nel mio lavoro di infermiera, ho avuto a che fare con persone che probabilmente, se avessero potuto scegliere se morire o continuare a “sopravvivere a se stessi”, in molti casi avrebbero scelto la morte.
Cosa significa la parola eutanasia? Etimologicamente la parola significa “buona morte” e con essa s’intende ogni azione o omissione di atti che procurano la morte con lo scopo di eliminare il dolore.
Secondo il mio parere, oltre al concetto di “morte senza dolore” va aggiunto quello di “vita dignitosa”, intendendo per dignità il rispetto che ogni persona ha del proprio Io. È un concetto molto individuale, ma alcune situazioni di malattie terminali croniche o degenerative rendono sicuramente la persona non indipendente nella scelta delle proprie condizioni di vita, non più padrona del proprio corpo, e questo diventa difficilmente accettabile quando l’infermità è solo nel fisico e non nella capacità cognitiva.
Il tema dell’eutanasia ha origini molto antiche, infatti già nel giuramento di Ippocrate viene detto «Non somministrerò ad alcuno, neanche se richiesto, un farmaco mortale nè suggerirò un tale consiglio», ciò significa che già allora veniva richiesta da pazienti sofferenti una “dolce morte”.
Quello che però è specifico del nostro tempo è il progresso delle tecniche mediche, della rianimazione, dei palliativi per prolungare la vita (o la sopravvivenza). Fino a pochi decenni fa la morte sopraggiungeva abbastanza presto, perché non si conosceva la cura per molte malattie o per complicanze che spesso si rivelavano mortali; anche una piaga da decubito o una polmonite potevono recare alla morte in tempi relativamente brevi.
Oggi l’età media della popolazione è molto più alta e non si muore quasi più per malattie acute, ma sempre più spesso per malattie croniche e degenerative. La scienza medica è in grado di garantire le funzioni vitali come la respirazione e l’alimentazione, nei casi in cui il paziente non sia in grado di respirare ed alimentarsi autonomamente.
A questo punto io mi chiedo… “tutte queste tecniche di sostegno delle funzioni vitali, sono un prolungamento della vita – sempre che possa essere chiamata vita in quelle condizioni – o solo un «rimandare la morte» inutilmente?”
Il problema è che forse nella nostra società bella, giovane, ricca, sana – o almeno così ci fanno credere che sia con i bombardamenti mediatico-pubblicitari – si sia venuta a creare l’inconscia e malsana idea che non si debba morire mai… Non riusciamo più ad ammettere che prima o poi tutti dobbiamo morire, e quindi facciamo di tutto perchè l’ultimo respiro giunga il più tardi possibile a qualunque condizione, ad ogni costo!
Ovviamente il problema dell’eutanasia non abbraccia solo l’aspetto etico-morale del singolo individuo, della sua autodeterminazione, ma coinvolge anche l’aspetto giuridico che riguarda le varie figure professionali assistenziali e le commissioni per i diritti dell’uomo e del malato. Tutti gli organi al momento si sono espressi non favorevoli a tale pratica, consentendo semplicemente la sospensione dell’accanimento terapeutico, con il quale s’intende la pratica di assistenze mediche e strumentali, allo scopo di prolungare la vita anche in assenza di possibilità di guarigione o sopravvivenza.
Dal punto di vista legislativo, in Italia, l’eutanasia è considerata un omicidio volontario e la pena prevista è la reclusione da 6 a 15 anni.
Vi invito a leggere la lettera inviata da Piero Welby al Presidente Napolitano, fa riflettere e comprendere che, pur amando terribilmente la vita (o forse proprio per questo), a volte sia meglio la morte…

«Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio… è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte
dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier.
Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani
è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce
il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono
richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di
essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti
eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la
richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto
delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta
di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
I l mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby [lì 24 febbraio 2009]

LA SCELTA
Davanti a me ho una penna e una pila di fogli che aspettano di essere riempiti con le parole che vorrei urlare per chi, soffrendo nel letto, non può esprimere la volontà di scegliere come, dove e quando morire.
Sullo schermo del pc sto rileggendo la lettera scritta da Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica sul tema dell’eutanasia. Riporta la data del 24 febbraio 2009, nulla è cambiato.
Parole che scorrono nella mente e che servirebbero per convincere coloro che ci rappresentano al governo che esistono ancora gli eroi. Eroi, non dei film di Hollywood, ma chi combatte una battaglia ogni giorno contro malattie. Malattie che devastano sia psicologicamente sia fisicamente e portano a volere guerre contro l’indifferenza e l’egoismo del mondo.
Prodi che sono schiacciati nel buio, che vorrebbero gridare le loro volontà ma non hanno il coraggio, la forza di reagire e pensano che sia meglio tenersi tutto dentro perché nulla cambierebbe.
Valorosi per cui ho deciso, per quel poco che rappresento e per quel poco che posso fare, di combattere.
Osteggiare brandendo la penna in mano e cominciando a scrivere, trasformando quei fogli nelle loro urla, nelle mie urla.
Berci da appendere ai muri, da spedire e far recapitare ai rappresentanti di tutte le organizzazioni politiche e sanitarie.
Grida da pubblicare su testate giornalistiche.
Estrapolare frasi da stampare sulle magliette e indossarle quotidianamente.
Riempire le strade, i palazzi, ogni angolo con manifesti, striscioni, ecc.
“IO VOGLIO MORIRE OGGI. IO VOGLIO MORIRE IN UN BOSCO. IO VOGLIO MORIRE ASSUMENDO UN VELENO. IO VOGLIO MORIRE BEVENDO UN COKTAIL DI FARMACI”.
Sarà la penna che attraverserà il mare d’indifferenza e sofferenza.
Una penna che libererà dalle gabbie mentali le persone che non capiscono che è giusto poter scegliere anche di morire invece di continuare a soffrire.
Una penna che come una nave racconterà del mare, non da chi sta seduto sulla spiaggia a guardarlo, ma da colui che è sulla nave e sta affrontando le onde della tempesta.
Sì, sono anch’io sulla nave. Sì, scrivo anche per me.

Mi chiamo Federica, alias Alice, ho 48 anni, sono malata di tumore al cervello. Ho provato ad aggrapparmi alla vita fin dalla diagnosi avvenuta nel 2015. Mi sono sottoposta a diciotto cicli di chemioterapia farmacologica sperimentale, a test, a ricerche, tutto ciò che mi era proposto pur di avere una vita che si avvicinasse alla normalità. Nel 2019 mi è stata diagnosticata una recidiva. Dopo successioni di ricoveri, esami pre-operatori, test di allergie, a ottobre ho fatto l’intervento per toglierla.
Terminato il “soggiorno” in ospedale, la proposta da parte degli oncologi di Torino (dove sono in cura dal 2016) è di sottopormi a radioterapia associata a chemioterapia con un farmaco appena studiato. Rifiuto, poiché gli oncologi di Milano sono stati diretti: “Il suo tumore ha raggiunto il livello III/ IV. Potrebbe rimanere latente (spento) per anni oppure evolvere oggi stesso”.
L’evoluzione del tumore significa diventare disabile e dover dipendere dagli altri. Il cancro mi renderebbe una vegetale nel letto di un ospedale, con tutte le conseguenze. La malattia mi toglierebbe la dignità di essere umano, obbligando anche i miei familiari a impegni gravosi di natura non solo economica ma di sofferenza e dolore.
Che cosa posso fare?
Potrei suicidarmi, ma ciò andrebbe contro la filosofia di vita: “Ogni cosa accade per portare una lezione nella propria vita che ci permette di crescere spiritualmente, ecc.…”
Decido di applicare l’eutanasia passiva, intesa come interruzione delle cure. Trovo un riscontro nella Costituzione italiana, secondo la quale: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
I miei pensieri vanno a dj Fabo, a Piergiorgio Welby, al Partito Radicale che aveva un progetto appoggiato da una petizione firmata da oltre 100 mila italiani.
Tutto fermo. Tutto bloccato.
Siamo in Italia, c’è la Chiesa Cattolica… rifletto.
M’informo attraverso Google sull’eutanasia applicata in Belgio, Olanda, Svizzera. Siamo in Europa, ma siamo ancora solo italiani. Italiani bloccati nel non poter decidere della nostra vita.
Rifletto, poi comincio a scrivere ed è un fiume d’inchiostro in piena.