Dal finestrino dell’aereo osservavo il cielo limpido illuminato dal sole, e sotto, un mare di nuvole e il mio sguardo senza pensieri si perdeva nello spazio infinito. In mano tenevo la guida del Perù chiusa; l’avevo già consultata più volte a casa, ora quel che contava era vivere l’esperienza, il viaggio, la gente.
Al mio arrivo all’aeroporto di Lima avrei incontrato Anna, la mia amica italiana, che da alcuni anni viveva in quella città. Anna lavorava per il ministero dell’istruzione e insegnava in una scuola per Italiani.
Dopo il disbrigo delle formalità doganali e il ritiro dei bagagli, mi avviai all’uscita dell’aeroporto dove fui letteralmente investita da offerte di passaggi da parte dei tassisti. Cercavo con lo sguardo la mia amica, ma c’era una gran folla e mi resi subito conto che l’unica speranza di incontrarla era rimanere in vista davanti alla porta principale cercando di scoraggiare l’orda di autisti.
Osservavo il cielo di Lima al tramonto, l’odore salmastro del mare vicino mi giungeva mescolato ad un odore indefinito, mai sentito prima, che mi avrebbe accompagnato per tutto il viaggio.
L’odore di Perù.
Avevo lasciato Venezia immersa in una giornata grigia e ancora fredda di inizio primavera, spolverata dalle tracce di una recente nevicata ed ora, dopo un giorno di viaggio, mi trovavo in un tramonto caldo d’inizio autunno, molto gradevole.
All’improvviso incontrai lo sguardo di Anna che, con un gran sorriso e la mano alzata a farsi largo tra la gente, si avvicinava: un grande abbraccio e ci avviammo verso l’auto.
“Sono felice di poter stare con te un po’ di tempo, mi sembri stanca e un po’ provata, come stanno i ragazzi? Ho saputo della morte di tuo padre, mi spiace molto, e il lavoro? Ti sei presa una bella pausa…”
Anna, destreggiandosi con disinvoltura nel traffico rumoroso e caotico di Lima, mi sbirciava sopra la montatura degli occhiali da vista che le calavano leggermente sul naso con l’aria interrogativa e un po’ ansiosa.
Anna conosceva le difficoltà che avevo dovuto affrontare nell’ultimo anno, c’eravamo scritte delle mail con una certa frequenza, tra noi c’era da sempre una certa intimità e spesso ci confidavamo e sostenevamo a vicenda.
Ora sentivo solo il bisogno di mettere spazio e tempo nelle mie relazioni.
“Mi fermerò a Lima solo qualche giorno, poi vorrei andare in direzione di Cuzco, mi sento attratta dalle Ande e dalla gente che vive lì, non so perché… forse ho solo bisogno di vivere in contatto con la natura; intanto ora sono qui con te e, per un po’, siamo insieme”.
Lima, una metropoli di 10 milioni di abitanti, più tanti altri non censiti: sembra siano circa settecentomila gli abitanti delle baracche alla periferia della città, sulle pendici di montagne di deserto: un paesaggio incredibile, fatto di terra, sabbia, lamiere e tende.
Questa prima visione della città era sorprendente, ancor più di quella che ebbi camminando per le vie del centro, senza borsa, come mi aveva consigliato Anna. Una folla incredibile di gente, per lo più indigeni che mi proponevano l’acquisto di qualsiasi cosa: da oggetti di qualsiasi natura, probabilmente rubati o di contrabbando a cibo cotto, dentro sacchettini di plastica; sui marciapiedi c’erano banchetti di dolciumi, sigarette, targhette telefoniche e frutta, in mezzo ad un traffico intenso e rumoroso: clacson impazziti, conbi gremiti di gente in cui, sempre, una persona sulla portiera aperta chiamava urlando le fermate. Odore acre e secco di smog e polvere.
Negli sguardi delle persone tanta rassegnazione e miseria, come spogliate della loro identità e soprattutto delle loro radici.
Anna aveva una casa a Miraflores, una zona residenziale di Lima, curata, con spazi ampi, belle case, giardini e bei negozi. Non mi sarei mai aspettata un centro così caotico. Quella sera a cena raccontai alla mia amica della visita alla città e delle mie impressioni.
“Sai, tanti giovani arrivano dalla selva o dalle montagne ”mi spiegava Anna”, in cerca di lavoro e per fare un po’ di soldi, ma solo pochi riescono a trovare un’ occupazione onesta, gli altri lottano per sopravvivere tutti i giorni, con qualsiasi mezzo; domani ti accompagnerò a visitare una comunità alla periferia della città, ti presenterò una persona speciale.”
Il giorno seguente sarebbe stata domenica, per cui Anna, libera dagli impegni di lavoro, mi avrebbe portata a Villa Salvador per incontrare Gerry, un’amica italiana che da circa venti anni viveva in questa comunità.
Man mano che ci addentravamo nella periferia le case lasciavano il posto a baracche, le strade non erano più asfaltate ma sterrate, di sabbia. Il taxi ci lasciò ad un incrocio, vicino ad una cabina telefonica. Anna entrò per avvisare Gerry del nostro arrivo: l’avremmo aspettata lì, era troppo pericoloso per due donne bianche avventurarsi in quel quartiere da sole.
Dopo pochi minuti arrivò una vecchia Volkswagen Maggiolino, gialla, piuttosto rumorosa e impolverata, con Gerry alla guida. Il suo sorriso era aperto e spontaneo e la sua stretta di mano vigorosa: questa donna esprimeva forza e mascolinità.
Prendemmo posto nell’auto; da quella nuova postazione potevo osservare con più attenzione e tranquillità le strade che percorrevamo e le persone che le affollavano.
“Benvenuta a Lima, come ti senti?” iniziò Gerry, mentre guidava con destrezza la sua scassata auto evitando buche e cumuli di sassi lungo la strada. “Mi sembri sbalordita”, aggiunse.
“Certo che lo sono” replicai, “in Europa certe cose non si vedono”.
“Sai” continuò Gerry, “gli indigeni che vedi provengono per lo più dalla Selva, si appropriano di un pezzo di terreno mettendoci sopra una tenda e poi, a poco a poco, costruiscono una baracca e s’insediano come formiche, in questo deserto di sabbia, dove non c’è né elettricità né acqua.”
“Incredibile”; non sapevo che dire, tanto era lo stupore e la tristezza che provavo in quel momento.
Gerry viveva a Lima da più di venti anni e si occupava da sempre di una comunità che ospitava trecento bambini e ragazzi, dai tre ai quindici anni. Ci portò a visitarla. Le abitazioni erano costruite su un pendio di sabbia vicino il mare.
Dopo aver lasciato l’auto sul ciglio della strada, imboccammo una ripida discesa verso il mare; ogni passo affondava nella sabbia e bisognava prestare la massima attenzione, rifiuti di ogni tipo erano sparsi ovunque.
A metà circa del percorso era stata spianata una grande terrazza e sopra vi erano stati costruiti due edifici vicini di lamiera, cartongesso e materiale plastico, insieme a un piccolo campo da calcio in cemento, dove alcuni ragazzi stavano disputando una partita molto animata.
La prima casa in cui entrammo, la più grande, era destinata a fanciulli ed adolescenti perché potessero sviluppare attività di doposcuola, laboratori culturali e creativi, e attività sportive; alcune stanze erano senza il tetto, “tanto non piove mai a Lima” mi spiegò Gerry.
La seconda casa ospitava un asilo e novanta bambini dai tre ai sei anni, in tre classi. Entrammo nell’aula dei più piccoli che, felici della visita, intonarono una canzoncina guidati dalla loro maestra, tutti seduti a terra in semicerchio; sotto un tavolo notai nascosto un gruppetto di piccoli, fra cui una bimba con il volto cosparso di piccole ferite insanguinate che continuava a grattare, anche la maglietta era macchiata. Non ascoltavo più la canzone, la mia attenzione catturata da quell’immagine: la bambina aveva capelli sottili e radi e un corpicino emaciato, che lasciava trasparire chiaramente la sua sofferenza. Richiamai l’attenzione di Gerry che si avvicinò per osservarla, quindi la prese per mano e insieme andammo nel suo ufficio dove la medicò con del cotone imbevuto di disinfettante-antibiotico (Gerry in Italia faceva l’infermiera ).
La piccola non piangeva, aveva uno sguardo assente, non esprimeva nulla, e in quel nulla c’era tutto, tutto il dolore, la paura, la miseria, la rassegnazione della sua vita. Non dimenticherò mai il suo sguardo. (Con la consapevolezza di ora riconosco negli occhi di quella bimba un richiamo molto forte e deciso.)
“In questo Paese non c’è assistenza sanitaria- cominciò Gerry -non ci sono cure per i poveri negli ospedali, se non paghi non puoi essere assistito; la mortalità è alta al di sotto dei cinque anni- continuò la donna, -io faccio ciò che posso, riesco a provvedere ai loro piccoli problemi di salute, se ci fossero più farmaci e almeno un medico a disposizione sarebbe meglio.”
Ciò che vidi rimase impresso nella mia memoria come un negativo su di una pellicola, indelebile.
Dopo la visita alla comunità, Gerry ci invitò per il pranzo a casa sua, carina ed accogliente, costruita in mattoni sembrava una reggia in quel paesaggio di miseria. Ci raccontò un po’ della sua vita, della prima volta in Perù come volontaria e in seguito la decisione di lasciare l’Italia per stabilirsi definitivamente a Lima e dedicarsi a questo progetto di comunità per i bambini che tutt’ora sta portando avanti con entusiasmo e tenacia. Provavo riconoscenza e gratitudine per Gerry e per tutte le persone che, come lei, dedicano la loro vita ai più bisognosi e meno fortunati.
Dopo aver lasciato Villa Salvador, Anna ed io raggiungemmo la fermata del conbi. Non avevo voglia di parlare, davanti ai miei occhi scorreva l’immagine di tutti quei bambini e riflettevo sulla possibilità di sopravvivenza che avevano e sulla qualità della loro vita una volta cresciuti.
Forse non era possibile cambiare il corso del loro destino, ma anche un aiuto come quello che stava dando loro Gerry, offriva loro delle possibilità in più.
Sul conbi salivano e scendevano continuamente persone di tutte le età, alcune riuscivano anche ad addormentarsi, nonostante il mezzo sobbalzasse continuamente e dai finestrini aperti entrasse un chiasso incessante, insieme alla polvere e allo smog dei tubi di scarico delle auto e dei bus che sempre correvano affiancati. A volte, durante le brevissime soste, saliva qualcuno con sottobraccio un cesto di dolciumi per tentare una vendita.
L’odore di Perù era così denso che sovrastava qualsiasi altro odore, chiudevo gli occhi e mi lasciavo cullare dai movimenti sconnessi del conbi, in modo che fluissero dentro di me odori e sensazioni.
Sentivo che era giunto il momento di lasciare Lima e la mia amica Anna, confortevole presenza in quel paese lontano.