L’ombra della memoria – Dal mito della caverna alle “ombre” di Hiroshima

Anna ScelzoArticoli, Riflessioni4 Commenti

L’ombra sulle scale della filiale della Sumitomo Banck co. Di Hiroshima, 1945.

 

“Non mi avete fatto niente, non mi avete tolto niente, questa è la mia vita che va avanti oltre tutto oltre la gente/ Non mi avete fatto niente, non mi avete tolto niente,
perché tutto va oltre le vostre inutili guerre.” (“Non mi avete fatto niente” Ermal Meta, Fabrizio Moro)

 

6 agosto 1945 8:15: un terribile quanto inaspettato boato colpisce Hiroshima. Un bombardamento atomico spazza via migliaia di persone in un attimo, e in quello stesso attimo sulla pietra si fissano quelle che furono definite le “ombre” di alcuni di loro. A Hiroshima, come a Nagasaki solo qualche giorno dopo.

La questione delle ombre ha affascinato filosofi e scrittori da secoli e ciò che si verificò ad Hiroshima e Nagasaki ha fatto interrogare anche scienziati sulla loro possibile formazione. Esse sembrerebbero dovute al carbonio di cui è composto il nostro corpo: nel momento in cui la bomba esplode, il corpo, che faceva da schermo al muro dove stava camminando in quel momento, a causa dell’alta temperatura viene istantaneamente carbonizzato ed è come se l’esplosione avesse letteralmente “spruzzato” sul muro la sagoma del corpo, lasciando dunque non un’ombra, bensì un’impronta.

Un’ombra infatti scompare poi per effetto del passaggio della luce, le “ombre” di Hiroshima e Nagasaki sono lì da ben 72 anni!

Ci sono avvenimenti nella vita di ognuno di noi che fermano immagini, determinano cambiamenti repentini, producono virate ma alcuni di essi riguardano eventi che si sono fermati nel tempo, sono rimasti sospesi e con essi un pezzo di noi è rimasto lì: nell’emozione, nel coinvolgimento del corpo, nella prospettiva di un sogno. Ecco le “ombre” di Hiroshima e Nagasaki mi appaiono un po’ come il ricordo di tutto ciò che è rimasto sospeso, ma che in qualche modo ancora vive, e che credo voglia essere (disperatamente) ricordato. Solo in anni recenti, facendo studi ulteriori su quelle ombre, hanno ritrovato pelle, capelli e altri resti organici delle vittime della terribile esplosione.

Come può l’uomo dimenticare queste tragedie? Come può andare oltre un senso di colpa, quello di aver interrotto la vita di persone che sognavano, amavano, lavoravano, aspettavano, vivevano esattamente come coloro che si sono resi responsabili della loro morte?

Senza dubbio parlare di queste ombre, di questa sorte di orme, impronte lasciate da nostri simili, oggi può aiutare giovani menti (e non solo) a riflettere sul senso della vita, le ragioni dell’uomo, le relazioni, di quanto queste siano animate di spirito di condivisione e crescita e quanto invece siano strumentalizzate a fini di lucro e interesse personale. Se non ci si interroga su ciò, tutto ciò che accade e che è accaduto nella storia (le guerre, la violenza, la discriminazione, la Shoah etc.) continuerà ad accadere e la vita scorrerà proprio come quella che Platone aveva descritto nel suo discorso con Glaucone, suo fratello maggiore, nel Libro Settimo della Repubblica.

Tutti lo conoscono come “la caverna delle ombre di Platone” e ricordo di aver visto recentemente un film “La Sindrome di Antonio” di Claudio Rossi Massimi, dove un giovane ventenne si mette in viaggio dall’Italia verso la Grecia alla ricerca di tale caverna, compiendo in qualche modo una sorta di viaggio iniziatico. Una volta lì Antonio si rende conto di quanto sia difficile vivere secondo i suoi ideali di comunismo in un Paese che della filosofia aveva in quel momento conservato solo i reperti archeologici, ma che viveva in un regime militare fatto di sospetti e causa di rigidità di pensiero e movimento nei suoi abitanti.

Ancora oggi molti turisti si recano in Giappone alla ricerca di quelle “ombre”: le vogliono vedere dal vivo. Proprio alcuni giorni fa leggevo qualche blog di viaggio nel Paese del Sol Levante e molte domande vertevano proprio sulla curiosità circa dove potessero ancora essere tali “solidi ricordi”. E mi ha ricordato un po’ una sorta di pellegrinaggio, un po’ come quello che si compie quando si va nei campi di Auschwitz o Mathausen. Anche lì si trovano resti di coloro che vi hanno perso non solo la vita, ma anche il suo senso più profondo…

Abbiamo bisogno di vedere, di toccare con mano, in un certo qual modo di respirare l’energia di ciò che l’uomo è in grado di fare attingendo al suo istinto più violento. Abbiamo bisogno di essere come il prigioniero liberato dalle catene della caverna, di andare fuori, di sperimentare, toccare ciò che esiste, e soprattutto di r i c o r d a r e. E l’energia di tale ricordo viene portata nel racconto di chi torna da coloro che hanno proseguito le loro vite nella quotidianità, forse anche annichiliti da informazioni e notizie che inondano letteralmente la mente senza darle il tempo di riflettere.

Recentemente ho assistito al racconto di una ragazza che parlava di una donna che era andata nella classe che frequenta a parlare di un altro pezzo drammatico della storia dell’umanità, dei desaparecidos in Argentina. Ho osservato in particolare la reazione di coloro che ascoltavano il racconto: i più giovani facevano domande, erano interessati, avevano un’espressione tra l’incredulità e la paura. I più “grandi” invece sembravano essere già edotti e tendevano ad aggiungere informazioni al racconto, come se lo avessero vissuto anche loro…
Dietro a tutto ciò ho visto e sentito la grande paura del dolore, della sofferenza in tutti i suoi aspetti: fisici, morali, psichici.

Sì, credo che in fondo sia proprio il dolore che cerca di annullare il ricordo, di spazzare via le immagini più truci, di trasformarle in memorie che rimangono incise nelle teste, un po’ come la didascalia sotto una foto di guerra. E’ la rimozione del ricordo, di quel vissuto che è inciso nel cuore (ri-cor-do: ri-suona nel cuore) che permette all’uomo di andare avanti, di continuare la propria esistenza nel tentativo di costruire sempre, continuamente ed indefessamente, la speranza di pace e di amore.

Al poeta, ai giovani cuori ancora immuni da dolori troppo mutilanti, agli artisti rimane il compito di tornare dal viaggio fuori dalla caverna e cantare, raccontare di ciò che è stato perché si rafforzi sempre più il senso del rispetto per la Vita.

Anna Scelzo

4 Commenti su “L’ombra della memoria – Dal mito della caverna alle “ombre” di Hiroshima”

  1. Marco di francisca

    Ombre immobili da 72 anni. Presenze cristallizzate che dovrebbero essere di monito e arginare la folle rincorsa al potere. Anche i dolori più laceranti possano diventare moto perpetuo verso Amore e rispetto per la Vita. Ognibene!

  2. Anna Scelzo

    Grazie Marco per il tuo commento. Hai ragione, anche i dolori più laceranti possono aiutare a dare valore ancor di più alla Vita se trasformati in occasione di relazione con l’altro.
    Grazie per la tua “traccia” :). Ognibene!

  3. Filomena Campagna

    Bellissimo articolo, nel senso che ciò che scrivi arriva al cuore, e forse a motivo che il dolore lo conosco… Ma vorrei far notare, che se osserviamo i visi di quei cinesi, e giapponesi, che sono qui nel nostro paese, e sembra, ”solo per lavorare,” nessun divertimento, oppure, se si divertono, non e così evidente, almeno quelli che vedo io sono così, dediti al lavoro, giorno e notte nutrendosi dell’necessario…E spesse volte, ho la netta sensazione che sono un po’ il prolungamento di quelle stesse ombre, che sono rimasti lì, folgorati dall’egoismo dell’uomo al potere…E che tra l’altro, non sente nessun senso di colpa, perche semplicemente non hanno cuore…

  4. Anna Scelzo

    Grazie Filomena per il tuo commento. Mi hai fatto ricordare quanto siamo in qualche modo un po’ tutti accomunati, nel disegno della storia, dalla necessità di realizzare guadagno e quanto questo ci porti molto spesso a perdere identità e rispetto di noi.
    A noi il compito di parlarne, di “far rumore”, di ricordare le ombre e i loro “proprietari”. Un caro saluto!

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