Le culture primitive o sottosviluppate, così definite in base all’ottuso modo di vedere degli Occidentali, hanno sempre nutrito per la terra, la ^Madre Terra^, un antico e profondo timore riverenziale misto a gratitudine, stabiliti sulla base di un egualitario rapporto fra uomo e natura che si è perpetrato ininterrottamente dalle origini fino ai nostri giorni. Rapporto spesso deriso o male interpretato ma che ora, in tempi moderni, è visto da molti come probabile soluzione a molte problematiche prodotte dall’attuale società capitalistica.
Oggi, nel XXI secolo, dopo il tanto atteso Duemila, siamo diventati tutti ecologisti… fino a che punto? È una moda, e non intima convinzione, quella di atteggiarsi, per esempio, a strenuo difensore dell’Amazzonia sventrata e prossima al collasso o paladino che si batte in favore dell’orso bianco o della balena o di tanti altri animali che rischiano l’estinzione. I film tipo Jurassic Park e le note trasmissioni televisive di Piero Angela sui dinosauri poi, hanno reso possibile in poco tempo anche l’accettazione di serpenti al pari di tante altre specie domestiche, come cani o gatti.
Non so quanto di vero ci sia in quest’atteggiamento, ma penso che sia sufficiente dare uno sguardo al degrado nel quale versano le nostre campagne o alle spiagge-pattumiera, unitamente agli altri problemi atmosferici, per rendersi conto che si potrebbe fare molto di più di quanto finora sia stato fatto. Fortunatamente ci sono persone ben disposte, molto sensibili alle problematiche ambientali che riguardano il nostro pianeta, e il loro apporto è senz’altro positivo, ma sono ancora poche rispetto al resto della gran massa che si definisce, come già detto, ecologista, amante della natura, ecc. e il cui contributo, nella maggior parte dei casi, consiste solamente nel parlarne con enfasi.
Che dire in proposito? Ci vorrebbe una nuova coscienza, una diversa educazione di tipo ^ambientalistica^. È il rispetto verso l’ambiente che è venuto a mancare in questi ultimi decenni; rispetto che i nostri nonni avevano e che noi, purtroppo, man mano abbiamo dissipato ciecamente. Non è facile, indubbiamente, ritrovare di nuovo questi antichi valori fondati su di una perfetta comunione nonostante tutto ciò che ci circonda e non sentirsi, come ora, un estraneo, un nemico o, nella migliore delle ipotesi, alla stessa stregua di uno svogliato osservatore che guarda la tela di un artista senza capire niente di pittura.
Ecco perché nella nostra civiltà, molti volgono il loro sguardo in direzioni lontane, verso altri mondi culturalmente diversi; inferiori senz’altro se si analizzano sul piano tecnologico, ma nettamente superiori su quello umanitario, soprattutto in correlazione al diretto rapporto uomo-natura. E fra queste culture diametralmente opposte alla nostra, di chiara tendenza animistica, spicca su tutte quella relativa agli Indiani d’America, dove il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante supera abbondantemente i limiti consentiti del rispetto reciproco (quali poi?), sconfinando molto spesso nel culto vero e proprio.
Infatti, il pittoresco e mistico mondo pellerossa traeva – e trae tutt’oggi – la sua essenza vitale (e culturale) dallo scambio quotidiano con la natura o Madre Terra, consistente in una perfetta comunione con tutti gli esseri presenti, siano essi animati o inanimati e dotati di una propria sacralità o spiritualità infusa loro dal Grande Spirito, il Padre di tutte le creature. L’intima convinzione di un’unione cosmica, nella quale il mondo è un’intera famiglia, è rappresentato in maniera diversa dalle varie tribù indiane.
Fra le tante cerimonie conosciute, vorrei citare quella della Sacra Pipa (1), in uso presso i Lakota Sioux, forse la più nota. In questo caso, la solennità della cerimonia è raggiunta nell’attimo in cui il fumo fuoriesce dalla pipa e sale verso il cielo, il luogo dove essi credono che risieda il Grande Spirito; allora, contemporaneamente, tutti i presenti esclamano: “Mitakuye Oyasin” (siamo tutti parenti). Con queste parole, è bene ricordarlo, si vuole rinnovare l’unione mistica con tutti gli esseri del creato. Tutto l’universo, quindi, è una realtà spirituale e religiosa. Ogni animale, pietra, albero e anche l’uomo sono sacri. Come così pure sono sacri anche gli eventi atmosferici e ogni altra manifestazione naturale.
Questa preghiera degli Hopi rende l’idea dell’unione armoniosa dell’uomo con il cosmo: “Sono una pietra, ho visto vivere e morire, ho provato felicità, pene e affanni: vivo la vita della roccia. Sono parte della Madre Terra, sento il suo cuore battere sul mio, sento il suo dolore, la sua felicità: vivo la vita della roccia. Sono una parte di nostro Padre, del Grande Mistero, ho sentito il suo lutto, ho sentito la sua saggezza, ho visto le sue creature che mi sono sorelle: gli animali, gli uccelli, le acque e i venti sussurranti, gli alberi e tutto quanto è in terra e ogni cosa nell’universo (2).”
Anche se rispettavano tutto ciò che esisteva in natura, gli Indiani erano più inclini però verso gli animali, dove vedevano l’incarnazione del loro Dio. Di questi ammiravano soprattutto la forza, l’agilità e l’astuzia, a tal punto che in molti casi si definivano nominalmente abbinando la caratteristica fisica unita al nome dell’animale: Orso Scalciante (Kiowa), Bisonte Gobbo (Cheyenne), e Volpe Rossa (Sioux), capi pellerossa, rappresentano alcuni esempi.
In relazione a ciò, vorrei citare la poesia di Connie Strong, una giovane indiana, già maestra nell’arte dell’espressione dei pensieri: “Gli occhi dell’aquila sono in me. E la mitezza della lepre è in me. E la velocità del cervo è nelle mie gambe. La dolcezza dello zucchero d’acero è nella mia bocca. Anche la forza dell’orso è in me. Il colore del fagiano è nella mia pelle. Il grido della folaga del nord è sulla mia lingua. Il tambureggiare della starna è nelle mie mani. E anche il silenzio dei pini silvestri è in me. E improvvisamente lo riconobbi: tutti questi sono i segni dello Tschippewa in me (3).”
Lirismo, come in questo caso, timore, amore, rispetto, erano questi i veri (ma non soli) sentimenti che il pellerossa nutrivano verso la Madre Terra (Maka per i Sioux, Ahktunowihio per i Cheyenne, ecc.), considerata sotto due aspetti distinti ma legati fra loro: come Progenitrice e come Madre. Come Progenitrice perché trattasi di potenzialità o sostanza di tutte le cose che crescono; come Madre, invece per quanto riguarda l’atto evolutivo di tutte le forme che crescono. Questa distinzione è simile alla ^natura naturans^ e ^natura naturata^ formulata dagli Scolastici cristiani.
Scoto Eriugena Giovanni (1810-1877 circa), filosofo e teologo irlandese, il massimo rappresentante di questa corrente filosofica sostiene che la natura è una manifestazione della natura divina che idealmente si attua in quattro momenti: 1)Dio, il principio di tutte le cose, è natura non creata ma che crea; 2)Le idee divine danno origine agli esseri, che rappresentano la natura che è creata e che crea; 3)Il mondo sensibile è la natura creata ma che non crea; 4)Dio, fine di tutto, si identifica con la natura non creata e non creatrice.
Dopo quanto detto, si può rilevare uno spirito (quello dell’indiano) totalmente diverso dal nostro, orientato verso una globalità cosmica nella quale i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, Dio-natura, si intersecano armoniosamente; se ne deduce, quindi, che l’etica e la morale non riguardano solo i rapporti con gli altri uomini, con la società e con Dio, come prevedono i Dieci Comandamenti, ma vengono estese anche verso gli animali, le piante, il sole, la luna, le stelle e ogni altra cosa esistente in natura. Ciò ci fa molto diversi!
A questo punto spontaneamente ci si chiede: quali insegnamenti potremmo noi trarre dal modo di pensare tipicamente indiano? Non è facile, così su due piedi, rispondere a questa complessa domanda, soprattutto perché ancora non sappiamo realmente cosa vogliamo. Il nostro futuro è incerto, questo è vero, ma quello che fa sperare in un miglioramento è la constatazione, non solo a parole, di voler cambiare e quindi migliorare. Miglioramento già da qualche tempo in atto, iniziato dapprima con l’abbandono (ancora non del tutto) del vecchio pensiero antropocentrico che poneva la natura al servizio dell’uomo e proseguito con la creazione di parchi nazionali e zone protette, fino ai nostri giorni contrassegnati dal sorgere continuo di movimenti ecologici che si battono, talvolta anche in maniera irrazionale, a favore dell’ambiente.
Nonostante i miglioramenti continui e la crescente consapevolezza di una correlazione con l’intero mondo cosmico, il contrasto che intercorre fra il pensiero occidentale e quello dei Pellerossa d’America, visti da molti come ^salvatori della patria^, rimane inutile negarlo netto e abissale. Noi siamo stati per troppo tempo legati alle nostre tradizioni religiose e storiche (e lo siamo ancora) per sperare di cambiare in maniera così repentina, come tutti vorremmo. Possiamo però imparare da queste civiltà animistiche che esistono anche altre strade da percorrere; senz’altro diverse da quella che noi abbiamo affannosamente battuto da duemila anni.
Non è necessario, quindi, diventare Pellerossa, Aborigeni, Tuareg o altro… è sufficiente rimanere se stessi! Purché occorra evidenziarlo, si riesca ad ammettere che esistono anche altri rapporti relazionali fra l’uomo e il meraviglioso disegno divino chiamato cosmo o Madre Terra (4).
1) Argomento trattato esaurientemente nel libro: La sacra pipa di Alce Nero/Brown J.E..
2) Kaiser R., Dio dorme nella pietra, pag.127.
3) Recheis K. / Bydlinski G., Sai che gli alberi parlano?, pag.104.
4) Si consiglia la consultazione del testo: Una sola madre terra di Corbin Harney.