Foto di Martina Cutuli
Il paradosso di oggi è che quando si parla di spiritualità si dà per scontato il fatto che dalla ‘terra’ ci si debba spostare verso il ‘cielo’ quando in realtà è esattamente l’opposto, per il – sotto certi aspetti agghiacciante – motivo che noi, su questa terra, non ci sappiamo vivere, noi non ci conosciamo. Ed è se e quando, iniziamo ad avere una vaga percezione di questo che possiamo scegliere di cominciare il viaggio alla ricerca di noi stessi, il viaggio alla ricerca di Dio.
In questo viaggio alla scoperta di sé si passa attraverso le maschere che indossiamo e i ruoli che consciamente o inconsciamente, interpretiamo. Indossiamo le maschere per proteggerci, perché queste fungono da filtro attraverso il quale le emozioni della vita vengono diluite, mescolate, sfocate così da sopportarle meglio. Ma, come scrivo spesso, il prezzo di queste maschere è un margine: una visione non reale non completa, non solo di chi o cosa vediamo ma anche di chi siamo noi. Si è quindi portati a vedere l’altro non come un semplice essere umano ma come un’ombra o una luce, carica di tutte quante le nostre proiezioni famigliari, culturali, mentali, infantili, romantiche, spirituali, perverse… non ce ne risparmiamo nemmeno una, che in realtà poi belle o meno belle che siano appartengono a noi.
Perché quello che mi rifiuto di vedere o di riconoscere in me (che può essere un difetto, un pregio, un talento) spesso e volentieri lo proietto sull’altro che mi fa da specchio. Così che io possa prendere atto delle cose che mi attirano o che mi danno fastidio al punto tale, da creare in me una grande re-azione emotiva che mi concede la possibilità di poterle finalmente osservare e ascoltare, perché quello che mi stanno dicendo è di smettere di puntare il dito verso l’altro e guardare invece cosa si muove dentro di me, perché tutto quello che mi scuote, destabilizza, attira, incanta… mi appartiene ed è forse il momento di prendersene la responsabilità.
Questo ovviamente non vuol dire subire un determinato tipo di comportamento perché visto che mi dà fastidio, mi appartiene e allora devo starmene lì zitta e buona ad aspettare di integrare quell’aspetto specifico di me che la persona mi sta mostrando. La persona in questione me lo fa vedere, io ci posso lavorare, ma se quella persona mi fa stare male allora con umiltà e rispetto e con il dito NON puntato, posso con naturalezza, se lo sento dentro, decidere di allontanarmi da quella situazione ma facendo tesoro delle cose che di me ho visto, senza far finta di dimenticarle lì.
Anche perché se così facessi si ripresenterebbero nel volto, nei gesti e nelle parole di qualcun altro con un’intensità sempre maggiore, invece che minore. Minore perché l’egoismo – ad esempio – che ho dentro fa parte di me, come essere umano, come anima in un corpo di carne, quindi non posso sperare di perderlo completamente, sarebbe come rifiutare una parte di me, sarebbe scindere, sarebbe dividere in bello e brutto, giusto e sbagliato, ma posso invece attraverso l’incontro con le mie maschere e quelle degli altri imparare a conoscerlo, ad accettarlo, a integrarlo, fino a quando scoprirne bagliori in me e nell’altro non mi creerà più nessuna re-azione scomoda ma un’azione consapevole e responsabile. LIBERA. Perciò potrò comunque incontrarlo durante il mio cammino fuori e dentro me, ma l’impatto che avrà sulle mie emozioni e ‘ferite’ sarà sempre meno intenso se io avrò cominciato a scegliere di guarire.
E’ bene imparare ad ascoltarsi, a sentirsi, a comprendere i propri messaggi e segnali. All’inizio non è facile proprio perché non ci conosciamo e siamo noi i primi a dover imparare il nostro intimo e autentico linguaggio, il nostro alfabeto personale, per comunicare prima con noi e poi con gli altri ma con la volontà e la fede tutto è possibile e l’Universo ci aiuta, se lo vogliamo.
Quindi conoscere se stessi, fare spiritualità nel quotidiano, vuol dire andare a togliere una maschera dopo l’altra e non aggiungere una ‘tecnica’ dopo l’altra. Frantumare ogni idea pre-confezionata che ci siamo cuciti addosso così da poter vedere l’altro per ciò che davvero è (un essere umano) e per vedere noi per ciò che davvero siamo. E in genere quello che siamo, corrisponde a bambini affamati che chiedono cibo agli altri, e accettare questa immagine di se stessi (senza maschere) non è per niente semplice, fa paura, fa male eppure è necessario, è uno dei primi scenari che si apre sul cammino verso se stessi: è nella scoperta delle nostre ferite, debolezze paure, dipendenze… ma anche di talenti, potenzialità, qualità… che ci appartengono, che possiamo incontrare la bellezza, abbracciare l’unione, sperimentare il perdono, toccare con mano la compassione, scaldarci d’Amore per il nostro stesso cuore che batte per noi, prima di tutto, per noi.
E’ nell’amore incondizionato per ciò che siamo e nella presa di responsabilità per ogni parte di noi stessi che si trova la vera libertà, quella che ci conduce di fronte a chi davvero siamo, quella che porta Dio di fronte a Dio.
Ciò che ho scritto nasce da una serie di libri ma anche per fortuna, da preziose, strazianti e meravigliose esperienze personali, che hanno cominciato a guidarmi verso sentieri diversi e sconosciuti. Ma, quello che ho scritto, è anche il frutto della vicinanza e degli enigmatici insegnamenti di mio zio che, da già sette anni, in un modo nuovo continua a lanciarmi sguardi severi e sorrisi rassicuranti che spero di riuscire a cogliere sempre meglio e con maggior frequenza, gratitudine e amore, in ogni più piccolo particolare della mia vita e, per ringraziarlo, vorrei concludere questa condivisione con una frase che mi scrisse parecchio tempo fa perché senza di essa, non avrei potuto vivere e né scrivere niente di tutto questo. Perciò, grazie.
“Una maschera, un’altra, poi un’altra ancora.
E’ il continuo viaggio dell’uomo
alla ricerca del volto di Dio”