Un “Dolce sentire”

Camilla ViscusiArticoli, Riflessioni, SpiritualitàLascia un Commento

Arrivano da ogni parte del mondo. Chi da molto vicino e chi da più lontano. Si muovono in gruppi, qualcuno con una guida, altri semplicemente in gita, ma per conto loro. Ci sono insiemi e sottoinsiemi di bambini tenuti ordinati, per quanto possibile, dai loro professori. Famiglie, con o senza passeggini, coppie eleganti, sportivi, tutti che girano per le strade di Assisi.

I perimetri della città sono negozi di souvenir. Botteghe, ristoranti, bar, di cui la gran parte ha preso in prestito il nome o le parole del santo, di Francesco. Attira l’attenzione. Potrebbe essere considerato un richiamo. E poi, ovunque, il simbolo del Tau. E’ invitante. Tutto questo fa salire l’appetito di acquistare qualcosa che possa far ricordare di essere stati lì, l’acquolina di poter dimostrare di aver conosciuto Francesco, averlo pregato e poi riportato a casa, in forma di statuetta, dipinto, braccialetto, di aver comprato e camminato la sua storia spezzettata un po’ qua e un po’ là.

Assisi va visitata perché lì c’è vissuto un santo semplice e ben voluto da tutti, perfino dal papa che infatti ha deciso di chiamarsi come lui. Per simbolo di cosa? Semplicità. Umiltà. Povertà. Gioia. Castità. Negli occhi di Francesco, Assisi, era questo. Ma dietro quanti strati? Di cosa l’ha spogliata, il suo sguardo, prima di arrivare alle carni? Quante ombre di popolo, di potere, di competizione, di corruzione, di ricchezza può aver visto aleggiare appena sopra quella terra? Come le avrà amate e illuminate prima di camminarci sopra? Assisi allora era una città di mercanti. E lo è rimasta. Oggi, lo è ancora.

Da sempre e ovunque, pure nella lontana Gerusalemme, si svendono le storie, chi le ha vissute e i loro luoghi. E lo si fa alla luce del sole, così da non dare nell’occhio ma amalgamarsi e spargersi bene tra la folla. E tutto è così normale da star fuori dal sospetto che forse non era proprio quello il modo in cui di fede, di preghiera, di semplicità, di umiltà, di povertà era stato detto. E si prosegue via via nel tempo, si moltiplicano fiumi e affluenti di gente marciante con le teste lontane dai passi e i piedi divisi dal cuore. Turisti.

Si fotografano i punti salienti di certe storie senza conoscerle e di cui, apparentemente, nessuno custodisce memoria. Come per quella di Assisi. Nessuno. Non me ne vogliano i frati, intellettuali, benpensanti indottrinati, nessuno. Fatta eccezione degli ulivi, degli uccelli, dei prati, dell’acqua, della terra, della luna e del sole; per non parlare poi del vento e delle pietre e del vento nelle pietre. Loro, la memoria di quell’evento, la ricordano, come non potrebbero: il canto che Francesco cantò per loro gli è stato scritto addosso, ricamata ogni parola sul telo immortale del ciclo di ogni andata e di ogni venuta. Non vi è ulivo nato ad Assisi, che sia vuoto di quella storia. Non importa gli anni passati e neanche gli alberi morti e quelli nati. Loro, la sanno e di silenzio la dicono.

Noi che abbiamo letto troppi libri frastornati di razionalità e di intelletto, di tempo lineare, definito e stretto, possiamo solo illuderci a pensare che stia lì la verità, lamentandocene o anche no, nell’apatica indifferenza e sufficienza tipica di chi per non fare, per non scegliere preferisce non aver dubbi o averne troppi e sapere solo fin dove conviene.

Poi però potrebbe accadere che qualcosa, simile ad un colpo di pistola, buchi quel pensare, frantumandolo come un disco tirato al volo nel cielo. Traiettoria precisa. Tempismo perfetto. Uno sparo. In mille pezzi. Preso al centro. Un bambino che di fronte alla tomba di Francesco, nell’imponente e sorvegliata Basilica (da uomini armati e in divisa) in tono docile e selvatico chiede alla madre “Mamma che cos’è quello?” e la madre compiaciuta dell’interesse che il proprio figlio mostra per la cultura o la religione, risponde “Amore, lì è dove è sepolto il corpo di Francesco” E il bambino dopo un po’ di silenzio chiede ancora “ Mamma, e perché lo hanno messo in gabbia?”

E tu che sei lì accanto, il mal capitato che ha sentito per sbaglio la domanda sorta dalla fantasia di un bambino, sorridi divertito, pensando, appunto, alla tenera fantasia dei bambini, ma mentre gli angoli della bocca prima allungati, tornano indietro percorrendo a ritroso il tragitto, improvvisamente amaro, tra il mento e le guance del viso per riportarsi serie, gli occhi che prima guardavano a terra, si alzano nello sguardo e vedono la tomba. E’ gelida la mano che stringe di colpo il tuo cuore. Serrata la mandibola, stretti i denti, come sempre solo che non te ne eri mai reso conto. Potessi descrivere quello che vedi adesso, diresti: lamine di ferro, scuro e freddo che come sbarre tengono stretta e schiacciata una quantità di pietra quasi ridicola per quanto eccessiva. E, se potessi dirti quello che senti diresti: compressione, soffocamento questa la sensazione che entra insieme al respiro. Già. Hai visto la gabbia visibile solo agli occhi dei bambini.

Qualcosa di rivoluzionario ti esorta ‘guarda ancora, guarda intorno, allarga la visuale’ . Lo fai. Non sai perché ma non riesci a sottrarti, come se qualcuno ti avesse preso alla sprovvista, così segui le persone che sono lì insieme a te, che si guardano in giro spaesate, non sapendo poi tanto bene dove, cosa, guardare. Camminano meccaniche, un po’ trascinate e di slancio si accostano, si inginocchiano sopra il gradino della tomba. Le mani sulle sbarre o sulla pietra tra di esse.

Pregano, supplicano, si fanno il segno della croce, prendono una qualche sorta di benedizione, ringraziano per buona educazione, confessano il peccato, la trasgressione, guadagnandosi l’assoluzione o tentando la sorte nell’offerta che si accende nella luce di una candela. Lo sguardo continua: poco più in là c’è un banchetto con le figurine del papa (probabilmente un bambino le avrebbe chiamate così) e per averle non bisogna comprarle ma lasciare un’offerta, il che è diverso, ma un bambino non lo capirebbe. E ancora poco più in là all’estremità di sinistra del semicerchio che circonda la tomba, c’è un frate, seduto su una poltrona in tessuto blu, con le rotelle, proprio come quelle da ufficio, siede lì, dietro una piccola scrivania.

Una catena divide il suo spazio da quello della gente comune, lì dove sta lui non si può entrare, però da lì dove sta lui, può benedire il tuo corpo, la tua mente, il tuo cuore, la tua esistenza, la tua vita in nome di Dio. E dei dieci euro che adesso la signora gli sta dando o meglio offrendo. E lui ora è partito a dire cose e a fare gesti con le mani. Come fanno i mimi per le strade, immobili fino a che non sentono il rumore dei soldi. O in questo caso anche del flash delle macchinette fotografiche: a fine benedizione vedi il frate sganciare un estremo della catenella che poi, dopo averla oltrepassata, ha subito la frettolosa premura di richiudere, cammina tutto convinto e a passo svelto per ammonire un uomo sopraffatto dall’impellente bisogno di fare una foto, lo guarda contrariato e dice “No, no no è. Niente foto, -qui-.”

Ha detto così il frate, compiaciuto di aver ristabilito l’ ordine, evitato per un pelo chissà quale catastrofe, scongiurato una grave mancanza di rispetto per quel luogo sacro. Ora siede di nuovo dietro una scrivania, sopra una poltrona blu, immobile fino al prossimo flash o tintinnare di soldi. Le foto –qui- no, ma prendere denaro in cambio di una benedizione, davanti alla tomba di Francesco che non ha mai chiesto nulla nemmeno per il pane, sì.

Il bambino non critica, non giudica, fa una cosa molto più libera e non condizionata: osserva.
E mentre lo fa sente cosa gli piace e cosa no, sulla base di niente se non di un battito del cuore. Se gli piace Francesco ma non gli piace dove lo hanno messo, si può essere certi che lo andrà a cercare ovunque, non resterà dove non gli piace stare anche se tutto il mondo, compresa la madre, gli dicono che Francesco si trova là. Dove lo cercherà, il cammino che nascerà sotto i passi della sua ricerca, saranno la sua storia, la sua vita, la sua avventura.

Mettersi sulle tracce di quel Francesco lì (che in queste righe è Francesco ma in modo più ampio può simboleggiare qualsiasi forza che riesca a far muovere l’anima e aver sete di amore) porta ad incontrare Dio. Troppo presto abbiamo smesso di osservare e forse è per questo che stiamo così male.

Assisi è una città di mercanti e di santi messi in gabbia come animali da circo, apparentemente privati della loro natura ma dietro l’indignazione e i veli della contraddizione c’è altro e tanto che ancora racconta e che dice ma per ascoltare è necessario togliere dalle gabbie i propri cuori. Probabilmente non siamo così diversi da ciò che si vede fuori, siamo noi i primi a svendere le nostre storie, quelle personali, siamo noi i primi ad amare solo in cambio di qualcosa, siamo noi i primi a renderci attraenti affinché qualcuno ci possa comprare piuttosto che rimanere soli. Siamo noi i mercanti e i santi messi in gabbia. Ed è sempre tempo di spogliarsi e venirne fuori, raggiungere l’essenzialità delle proprie carni.

Camilla Viscusi

 

 

La toccante amicizia di due pellegrine 

Compagne di cammino – Angela Seracchioli 

L’amicizia è la forma d’amore più alta che possa esistere fra gli esseri umani.

Se poi l’amicizia è quella fra due pellegrine che percorrono i sentieri del mondo assieme, ogni passo diviene storia comune creando un legame profondo che va oltre la stessa vita in quell’eternità del presente di ogni passo.

«…scrivo questo libro per gratitudine, perché incontrare il proprio compagno di cammino è un dono del Cielo di cui essere immensamente grati. Scrivo per chi lo ha già un compagno di passi e, forse, dà per scontata questa immensa fortuna. Racconto spezzoni di tempo condiviso per chi non ha ancora con chi condividerlo. Perché chi lo cerca o lo desidererebbe sia pronto a riconoscere in quella persona magari appena incontrata, in quel pellegrino, in quella pellegrina fra tanti, la Compagna, il Compagno con la C maiuscola. Non ho una ricetta per riconoscerlo, così come non so come si scopre un vero amore fra tanti, a me è accaduto, il Cielo me l’ha regalata per un po’ sulla Terra e per sempre nell’Oltre; e sono grata.»

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