“In quelle notti dilatate (poiché la nostra inattività cominciava al calar del sole) sotto le fronde di un qualunque bosco cominciavamo a fare piani su piani: per il momento, per i tempi successivi, per la vittoria…”
Ernesto Che Guevara
Corretta, chiara e ben documentata, è la biografia più completa in circolazione su Che Guevara, corredata dalle più belle foto che ripercorrono i momenti salienti della sua vita.
Dall’infanzia al viaggio in moto in Sud America, dal Messico a Cuba, la Rivoluzione, i suoi incarichi di governo, i viaggi, il Congo e la Bolivia.
Sono pagine coinvolgenti e ricche di aneddoti, con le testimonianze dei suoi compagni di vita e di guerriglia, le sue lettere a casa, che ne rivelano la profonda umanità e schiettezza.
Sono trascorsi molti anni dalla morte di Ernesto Che Guevara, ma la sua immagine, attraversando le generazioni, rappresenta ancora la speranza di una vita dignitosa e di un riscatto dallo sfruttamento e dalle ingiustizie sociali.
Quello che il “Che” ha incarnato per milioni di persone in tutto il mondo, al di là delle idee politiche, è ciò che mantiene vivo in ciascuno di noi la passione per la vita e per la libertà.
Chi vive intensamente non può non amare il “Che”, e la sua vita continua ad essere un esempio, in questi tempi di grigio materialismo o di tiepida spiritualità, per chi vuole un mondo di giustizia e di bellezza.
Finalmente una biografia esaustiva, corretta e soprattutto leggibile e comprensibile per chiunque, anche per i non addetti ai lavori.
Introduzione
Nota
Dalla nascita al Guatemala
Breve storia di Cuba
Ernesto Guevara diventa il Che
A Cuba
Il Che verso la leggenda
Ministro dell’economia e banchiere
In Congo
La Bolivia
Post mortem e le campane della storia
Alcuni chiarimenti
Qualche ricordo
Ringraziamenti
Bibliografia
Introduzione
Sono trascorsi quarant’anni dalla morte di Ernesto Che Guevara, ma la sua immagine, attraversando le generazioni, rappresenta ancora, per milioni di diseredati di tutto il mondo, la speranza di una vita dignitosa e di un riscatto dallo sfruttamento e dalle ingiustizie sociali.
Dopo quattro decenni la sua immagine è ancora capace di attrarre migliaia di giovani in tutto il mondo: c’è chi ne ha fatto un mito, una leggenda, il simbolo e la bandiera di una rivoluzione fondata su eguaglianza e solidarietà, e altri invece che, non sapendo praticamente nulla di lui, ne hanno fatto un prodotto di merchandising immortalando il suo volto su poster e magliette, perfino sugli striscioni nelle curve degli stadi calcistici. Quanto all’Italia, dopo aver rappresentato per molto tempo il simbolo di una certa trasgressione formale e del nostalgismo sessantottino, in un più recente passato ha iniziato a fare breccia anche in esponenti della destra, quella più radicale, che negli anni Ottanta fu definita «nouvelle droite». Già pochi anni dopo la morte di Che Guevara, agli inizi degli anni Settanta, gli unici esponenti della destra italiana nel campo dello spettacolo, quelli del Bagaglino, avevano prodotto un disco a 45 giri che contrapponeva in una facciata “Il legionario di Lucera” e nell’altra “Addio Che”.
Uno strano accostamento, per due figure così politicamente e storicamente diametralmente opposte. «La gente come te non crepa nel suo letto, non muore di vecchiaia. Non eri come loro, dovrai morire solo, addio Che!» recitava il testo della canzone dedicata a Guevara, e in varie occasioni le organizzazioni giovanili della destra italiana hanno sviluppato dibattiti e perfino stampato manifesti in memoria del rivoluzionario argentino-cubano. Nel dicembre 1997 la Federazione nazionale combattenti della Repubblica Sociale Italiana ha affisso centinaia di manifesti (timbrati e legalizzati dall’ufficio affissioni del comune) nella “rossa” Bologna, nei quali veniva rivendicato un ideale passaggio di consegne tra Benito Mussolini ed Ernesto Che Guevara, con tanto di foto di entrambi.
Di certo la destra che ama Che Guevara – destra post-fascista, post-storica, post-moderna, post-tutto – confusa evidentemente nei propri riferimenti culturali, mescolando in teorie contraddittorie Sorel e Marx con Alain de Benoist, Pareto, e Spengler, poco ha letto di lui e della sua vita. Guevara fu certamente anche – ma non soltanto – un guerrigliero eroico. Tuttavia nulla ha da spartire con l’immagine dell’eroe romantico, del cavaliere solitario o del “superuomo” che cerca la bella morte. Ancor meno, anzi tutto il contrario, con il voler dividere il mondo in caste e razze, o con la difesa del sacro suolo patrio.
Humberto Vázquez Viaña, fratello di Jorge Vázquez Viaña detto el Loro che combattè e morì in Bolivia con Che Guevara, ha scritto: «Carenti di valori propri, questi gruppi cercano eroi del passato – spesso estranei alla propria cultura – e ne manipolano l’immagine, attribuendo loro doti straordinarie, nel tentativo di creare gli eroi del presente». Su questo volerlo tirare per la giacca da più parti, lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ha scritto: «Quanto più lo insultano, lo manipolano, lo tradiscono, più il Che (ri)nasce. Anzi è quello che (ri)nasce più di tutti. Non sarà perché parlava come pensava e faceva quel che diceva? Qualcosa di straordinario in un mondo dove le parole e i fatti raramente si incontrano. E se si incontrano non si salutano perché non si conoscono».
Che Guevara seppe indubbiamente cogliere con largo anticipo molti problemi del nostro tempo: il perpetrarsi di conflitti sempre più feroci, la distanza economica tra nord e sud del pianeta, la tragedia dei paesi sottosviluppati, che subiscono il peso del debito internazionale in una logica di libero mercato basato su scambi commerciali tutt’altro che equi e solidali. In una intervista all’argentina Radio Rivadavia pochi mesi dopo il trionfo della Rivoluzione cubana, il 3 novembre 1959, Guevara aveva sottolineato un problema che continua ad essere di grave attualità: «Se il Fondo Monetario Internazionale rappresenta un fattore di liberazione per l’America Latina, penso che avrebbe dovuto dimostrarlo, ma finora non conosco nessuna dimostrazione che ciò sia avvenuto. Il Fondo Monetario Internazionale svolge funzioni completamente diverse: precisamente quella di assicurarsi il controllo di tutta l’America per conto di un numero ristretto di capitali che risiedono fuori dall’America Latina».
Nato da una famiglia dell’alta borghesia, dotato fin dall’infanzia di un’enorme carica di volontà e tenacia benchè segnato nella salute dall’asma – le cui crisi lo accompagneranno per tutta la vita in modo persistente e angoscioso – con una precoce vocazione ribelle e «antagonista», percorre in modo integro e coerente un itinerario rivolto verso un miglioramento dell’umanità e la realizzazione del sogno di Bolívar e Martí per una grande patria americana. La costante della sua vita è stata la lotta contro le ingiustizie, combattendo affinchè le barriere che negano libertà e dignità alle persone fossero abbattute, e dopo aver raggiunto le vette del potere e della notorietà, butta a mare onori e privilegi per ritornare ad essere il Che comandante guerrigliero. Come amano dire i latinoamericani e come ha detto Fidel Castro, un uomo con le tre C: un cervello, un cuore e dei cojones.
Libertario più che populista, comunardo più che anarchico, marxista internazionalista più che qualsiasi altra cosa, nel corso della sua evoluzione etico-politica ed intellettuale passa dal giovanile antimperialismo all’adesione al marxismo solo dopo la sua esperienza in Guatemala nel 1953. Il suo antimperialismo, che fino ad allora si era espresso a livello di pura analisi, si trasforma da quella esperienza in una chiara presa di posizione politica. In Guatemala comprende che difendere la libertà e la sovranità di un popolo significa lottare contro l’aggressore e, in determinate condizioni, anche impugnando le armi. È in quell’anno e nel successivo periodo in Messico che Guevara inizia ad approfondire le teorie marxiste, leggendo sistematicamente i testi di Marx e Lenin, e nel giro di poco tempo abbraccia pienamente quella dottrina. Sarà tra i pochissimi a definirsi comunista quando con gli altri leaders della Rivoluzione farà il suo ingresso a L’Avana libera nel 1959. Tuttavia il suo marxismo è assai diverso da quello ufficiale, dogmatico ed ortodosso dell’Unione Sovietica. Nei cinque anni trascorsi a Cuba ha maturato un’evoluzione politica crescente, nel tentativo generoso e continuo di avvicinare alla prassi la teoria della costruzione di una società libera dall’alienazione del capitalismo, ma anche la ricerca di una libertà reale nella società socialista.
«Il suo marxismo è quello di un lettore autodidatta» conferma Francois Maspéro «e non smetterà di modificarsi e arricchirsi nel corso delle sue letture ed esperienze. Ciò finirà per contrapporlo in maniera clamorosa e fino alla rottura non solo agli autori dei manuali di marxismo-leninismo, ma al dogma stesso in vigore nei paesi comunisti. Il Che tenta di ripensare un comunismo per il quale il motore della Storia sia l’uomo stesso, più che la lotta di classe».
«Libertario profondo» lo definisce Saverio Tutino, corrispondente dell’Unità a L’Avana negli anni della rivoluzione, il quale aggiunge: «Approderà alla fine ad un suo “trotzkismo” particolare, più che a un suo marxismo: sarà francamente operaista, ma nel senso di voler rinnovare prima di tutto la coscienza del lavoratore industriale per portarlo a “produrre senza subire la coartazione della necessità fisica di vendersi come merce”».
C’è anche chi – certamente sbagliando, e non sempre in buona fede – ritiene che Guevara non abbia mai completamente abbracciato la dottrina marxista, e che pertanto non lo si possa considerare un comunista tout court. Tra questi, c’è suo padre, il quale così si è espresso:
«Certo, i viaggi giovanili ebbero molta influenza sulle sue idee. Come padre l’ho visto crescere e maturare, e l’ho visto assorbire alcune delle idee che hanno animato la mia esistenza, l’ho visto orientarsi a poco a poco verso il socialismo in cui ho sempre creduto e credo ancora. Tornò dagli Stati Uniti (nel 1952, dopo il viaggio in motocicletta con Alberto Granado – nda) con un giudizio molto negativo sul paese e sull’influenza che esercita nel resto del continente. Ma se si vuol dire che era diventato comunista, devo rispondere assolutamente di no. Aveva già, dopo quel viaggio, una certa idea della sollevazione contro gli Stati Uniti per creare l’unità dei latino-americani. Qui in America si fa presto a dire comunista, ma io non so dire ancora oggi se Ernesto sia mai stato un vero comunista con un’ideologia basata sul marxismo scientifico. Ebbene, personalmente non lo credo».
Il parere dell’amico Alberto Granado è probabilmente quello più realistico e concreto:
«Il primo viaggio servì a fare domande. Il secondo a trovare le risposte. Penso che viaggiare lo abbia reso sensibile alle ingiustizie, alla mancanza di rispetto per l’umanità degli indios, alla povertà. Furono quelle le radici delle sue teorie marxiste».
In lui la scoperta del marxismo rappresentava un progetto contro il capitalismo e il liberalismo. Dopo i primi anni da ministro dell’Industria cubana e dopo i primi viaggi nei paesi culla del «socialismo reale» cominciò a prendere coscienza delle contraddizioni economiche, politiche e culturali tra il progetto cubano e quello che stavano realizzando quei paesi, i quali, secondo la sua analisi successiva, non rappresentavano una vera ed autentica alternativa al capitalismo. Se nei primi anni da dirigente politico ed economico post-rivoluzione riteneva che il socialismo cubano dovesse riprodurre il modello sovietico e seguire quindi l’esperienza dei “fratelli maggiori”, arriverà molto presto a comprendere la necessità di realizzare a Cuba un modello economico, politico e culturale alternativo non solo al capitalismo, ma anche al marxismo dogmatico dei manuali sovietici. Fondamentali saranno la sua “guerra alla burocrazia”, al settarismo, all’inefficienza e agli eccessi di statalizzazione, che caratterizzavano non solo lo stalinismo ma l’intera esperienza del marxismo-leninismo sovietico. Temi questi ampiamente previsti già molti anni prima di Guevara: Lev Davidovic Trotzkij, che fu con Lenin il più grande marxista del ventesimo secolo – e che al pari di Guevara fu scrittore assai prolifico – dopo la morte di Lenin nel 1924 guidò la lotta contro la degenerazione burocratica dello Stato sovietico, una lotta che Lenin aveva cominciato dal letto di morte. Nel gennaio 2000, all’indomani della caduta del muro di Berlino e del crollo del socialismo nei paesi dell’Est, Alan Woods ha scritto:
«Trotzkij spiegò tanto tempo fa che la burocrazia stalinista, questo tumore nel corpo dello stato operaio, avrebbe finito per distruggere le conquiste dell’Ottobre. Nel 1936 egli previde che “la caduta della attuale dittatura burocratica, se non verrà sostituita da un nuovo potere socialista, porterà al ritorno alle reazioni capitalistiche con un declino catastrofico dell’industria e della cultura” (La rivoluzione tradita). Ora si vede la correttezza di questa previsione. Gli stessi dirigenti del cosiddetto partito comunista dell’Urss che ieri giuravano fedeltà a Lenin e al socialismo, ora sono impegnati in una smodata corsa ad arricchirsi con il saccheggio sistematico delle proprietà dell’Unione Sovietica».
Subito dopo la morte di Guevara una parte della sinistra ortodossa e dogmatica ne ha preso le distanze, associando la sua immagine all’estremismo, all’avventurismo cieco, alla folle corsa verso l’autodistruzione. Considerato eretico da quanti si consideravano depositari della “linea giusta”, è stato definito prima “maoista” e poi “trotzkista”, e non v’è dubbio che per gli stalinisti di ogni risma Guevara sia stato uno dei peggiori nemici. Ancora ai giorni nostri qualche “marxista della cattedra” o “nostalgico terzointernazionalista” non gli perdona che nell’accampamento boliviano i rangers avessero trovato tra le sue carte l’ingombrante (non solo come mole) volume Storia della rivoluzione russa di Trotzkij.
La sua progressiva critica al «socialismo reale» troverà il culmine – vero punto di non ritorno – nel discorso di Algeri del 24 febbraio 1965 che, unitamente all’articolo scritto per “Marcha” sul socialismo e l’uomo a Cuba, alcuni considerano il suo testamento politico. Nell’intervento di Algeri metteva sotto accusa le potenze socialiste perché non concedevano in modo disinteressato il loro aiuto ai Paesi in lotta contro l’imperialismo. Nell’articolo di «Marcha» indicava invece la necessità – ancora oggi d’attualità – di creare nel socialismo cubano istituzioni capaci di succedere alla carismatica direzione di Fidel, e riprendeva il tema dell’alienazione, del pericolo del suo ripetersi nel socialismo: «Se si rinuncia a sfruttare le energie umane liberate della rivoluzione, si cade in una nuova forma di alienazione».
Per lui la rivoluzione andava fatta per costruire un «uomo nuovo», non solo quindi per cambiare radicalmente l’organizzazione dell’economia. Sul piano politico comprese con più di vent’anni di anticipo quello che sarebbe accaduto nel 1989 a Mosca e nelle altre capitali del patto di Varsavia. Intuì che Cuba avrebbe corso il rischio di passare dalla vecchia dipendenza dagli Stati Uniti a quella nuova dall’Unione Sovietica, se l’esempio cubano non fosse stato seguito da altri paesi latinoamericani. Per questo cercava altre strade per l’emancipazione dei popoli del terzo mondo.
In Messico e nei primi anni a Cuba, come si è detto, Guevara fu certamente un marxista ortodosso e molti tentano ancora oggi di spacciarlo tale, senza tener conto della sua evoluzione successiva, frutto di esperienze, incontri, letture, maturando un progressivo distacco da quel modello. Ha rilevato Antonio Moscato: «Solo chi è irreparabilmente attaccato al metodo catechistico delle citazioni atemporali può ignorare l’evoluzione successiva, attaccandosi a quelle formulazioni ingenue. Con questo metodo potremmo ridurre Gramsci al suo articolo giovanile di apprezzamento per Mussolini!».
Il suo antimperialismo, che si traduceva nell’internazionalismo solidale, lo porteranno a combattere prima a Cuba, poi in Congo ed infine in Bolivia. Solo la morte non gli permetterà di portare a termine l’itinerario della lunga marcia verso una cosciente e definitiva rottura programmatica con l’esperienza del socialismo sovietico. Va detto tuttavia che se Guevara prese le distanze dallo stalinismo, fu altrettanto lontano dalle logiche del riformismo e della socialdemocrazia. Ed è in quest’ottica – l’internazionalismo rivoluzionario – che è possibile accostare Guevara alla «Rivoluzione permanente» teorizzata da Leone Trotzkij. Guillermo Almeyra ha scritto:
«C’è una completa coerenza tra l’internazionalismo di Guevara e il suo rifiuto dell’idealizzazione dello Stato, il suo antiburocratismo, antidogmatismo, apertura democratica al pluralismo e al confronto delle idee. Perché soltanto gli uomini critici, liberi, possono essere sensibili alle ingiustizie sofferte da altri popoli e possono oltrepassare i limiti stretti e meschini del nazionalismo e del proprio interesse, e perché non è possibile costruire una coscienza socialista se non è solidale e internazionalista».
Nel luglio 1963, in un’intervista al francese Jean Daniel, il Che aveva dichiarato: «Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo al tempo stesso contro l’alienazione. Se il comunismo si disinteressa dei fatti di coscienza, potrà essere un metodo di ripartizione, ma non sarà mai una morale rivoluzionaria».
Con una costante inclinazione alla verità nuda e pura, il comunismo di Guevara è creativo e libertario. Da vero democratico cercava sempre il dialogo, chiunque fosse l’interlocutore, ascoltando con interesse anche le opinioni opposte alle sue: «O noi abbiamo la capacità di battere con argomenti le opinioni contrarie, o dobbiamo lasciare che si esprimano. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza». Ribadirà questo concetto nel 1964, in risposta all’accusa di trotzkismo da parte dei filosovietici: «Io credo solo una cosa, ed è che si deve avere la capacità sufficiente per distruggere tutte le idee contrarie su un determinato argomento oppure lasciare che le opinioni si esprimano. Non è possibile distruggere le opinioni a bastonate perché questo è proprio ciò che uccide lo sviluppo, lo sviluppo libero dell’intelligenza».
Tra le ragioni del suo addio a Fidel Castro per portare la lotta prima in Congo ed infine in Bolivia, c’è anche il suo voler rompere l’isolamento della rivoluzione cubana, temendo che potesse finire per essere troppo legata all’Urss. «No hay que amamantarse a una sola teta» (non bisogna prendere il latte da una sola mammella), e in altra occasione dirà: «la soluzione ai nostri mali non sta nel liberarci dal nocivo dominio yankee per mezzo del nocivo dominio sovietico».
Se Che Guevara fu certamente odiato dagli yankees fino al punto da volerne la morte, non si può certo dire che fosse amato dai partiti comunisti latinoamericani legati all’Unione Sovietica. Con riferimento alla sua morte in Bolivia, Jean Cormier ha scritto:
«Egli è stato preso in una morsa tra i due grandi, e la Cia come il Kgb si sono ritrovati a dare la caccia, per ragioni diverse, alla stessa preda. Alla luce del sole la Cia, con i ranger boliviani che aveva addestrato, e nell’ombra il Kgb, tappandogli le prese d’aria per asfissiarlo».
Come si è detto dopo la morte del Che molti si sono appropriati della sua immagine, e altri tentano oggi maldestramente di accaparrarselo. Il suo carattere anticonformista, il suo spirito inquieto, la sua coscienza morale, la sua generosità, lo rendono un’eroe universale, perché non lotta per una sola patria ma per l’umanità intera. Né – come qualcuno ancora oggi vuol far credere – può essere annoverato tra i cattivi maestri dell’ultimo quarto del secolo scorso. Sul terrorismo, in tempi non sospetti, il Che aveva scritto in “La guerra di guerriglia”: «Credo sinceramente che il terrorismo sia un’arma negativa, che non produce in alcun modo gli effetti voluti, e che può indurre un popolo a mettersi contro un determinato movimento rivoluzionario».
Nell’articolo Il socialismo e l’uomo a Cuba, scritto in forma di lettera a Carlos Quijano, direttore di Marcha (settimanale uruguaiano di Montevideo), Che Guevara scriveva: «Mi lasci dire, a rischio d’apparirle ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore. È impossibile concepire un autentico rivoluzionario che non abbia questa qualità».
Qualcuno ha sottolineato che «per certi versi Guevara somiglia più ad un santo che ad un eroe. Nessun altro individuo è riuscito ad incarnare in modo così completo ed esemplare la mentalità e la sensibilità dell’uomo cristiano. Egli appare come una figura ideale, modello di virtù superiori, emblema dell’amore disinteressato per l’umanità», ed Eduardo Galeano lo ha descritto come un uomo dotato «della capacità di sacrificio di un cristiano delle catacombe» che sceglie di stare in prima linea «senza concedere a se stesso il beneficio del dubbio, né il diritto alla stanchezza».
Jean Cau, scrittore e giornalista francese che è stato per dieci anni segretario del filosofo Jean-Paul Sartre, vede addirittura nel Che un “altro Cristo” nel cui percorso di vita ne rivive la passione, la crocefissione e la morte. Quando – a Valle Grande in Bolivia – il cadavere di Guevara viene adagiato su una lastra di cemento nella lavanderia dell’ospedale Nuestra Señora de Malta e i fotografi presenti ne immortalano l’immagine in alcune foto, gli occhi del Che sono ancora spalancati. Nella tragicità del volto e nella posizione assunta dal corpo immobile molti vi rivedono, dalla stessa angolatura, il celebre dipinto della deposizione di Cristo del Mantegna. Inerme, morto, arreso.
Jorge Castañeda, sociologo messicano autore di una nota biografia di Che Guevara, ha scritto: «Gli scoprirono il volto, ora rilassato e sereno, e gli denudarono il torace. Quando cominciò la processione di giornalisti e di cittadini curiosi, la metamorfosi era completa: quello che fino al giorno prima era stato un uomo abbattuto, nervoso e scarmigliato, era ora il Cristo di Vallegrande, nei cui limpidi occhi aperti si rifletteva la calma dolce di un sacrificio accettato. L’esercito boliviano aveva trasformato un rivoluzionario ormai intrappolato e rassegnato in un simulacro di vita oltre la morte.
L’impatto emblematico della figura di Ernesto Guevara è inconcepibile al di fuori della dimensione del sacrificio: un uomo che aveva tutto, il potere, la gloria, la famiglia e l’agiatezza, vi rinuncia per inseguire un ideale, e lo fa senza rabbia né riserve mentali. La sua innegabile propensione al sacrificio di sé va rintracciata non tanto nei suoi discorsi o negli scritti, né negli elogi funebri pronunciati da Fidel Castro e neppure nelle celebrazioni postume del suo martirio, quanto piuttosto nel suo sguardo da morto. È come se egli, cadavere, guardasse i suoi assassini e li perdonasse; e guardasse il mondo, proclamando che chi muore per un’idea è al di là della sofferenza».
Sebbene questo barbuto guerrigliero non possa essere accostato, per evidenti ragioni, al barbuto di Nazareth, ci sono tuttavia cattolici ai quali, ammirandone le gesta, piace ricordare, tra gli altri, due episodi. Il primo ci viene descritto dagli scrittori cubani Froilán González e Adys Cupull che hanno investigato sulla vita del Che per moltissimi anni; González riporta una vicenda che ha per protagonista la zia di Guevara, al quale dall’infanzia aveva affettuosamente dato il nomignolo di Teté: «Quando Ernesto assunse una posizione marxista-comunista nei confronti della vita, la zia, religiosa e timorosa della sorte che sarebbe toccata al suo Teté nell’aldilà, decise, insieme ad altri parenti, di chiedere a Paolo VI un’indulgenza plenaria che assolvesse il Che da tutti i peccati. Il Papa la concesse e lei si mise il cuore in pace. Era il 25 maggio del 1964».
Il secondo episodio riguarda le ore finali della sua vita. Quando il Che viene catturato in Bolivia, nel suo zaino viene rinvenuto tra altri oggetti un taccuino sul quale, oltre ad altre poesie scritte di suo pugno, vi sono questi versi del poeta spagnolo León Felipe:
«Cristo, ti amo, non perché sei sceso da una stella, ma perché Tu mi hai rivelato che l’uomo ha lacrime e angosce, chiavi per aprire le porte chiuse sulla luce».
Per la sua profonda umanità, da molti viene considerato come il portatore di un mistero sacro, come un Santo sulla terra al servizio di chi lotta contro oppressione e miseria. Per costoro il Che è molto più di una moda, di una marca, di una maglietta. “Santo laico”, lo chiama il poeta Otto-Raúl Gonzáles; “Giovane santo”, il poeta Nicolás Guillén; “Cristo guerriero”, Francisco Fernández-Santos.
Dario Puccini ha scritto: «Non v’è dubbio: arduo è trovare nel mondo in cui viviamo un individuo che abbia scelto l’eguaglianza come metro della propria vita, come presagio della propria morte; arduo è trovare uno, come il Che, che avesse scelto, anzi pronosticato, da tempo la propria morte per un ideale e che questa morte la preferisse quasi anonima, fuori comunque dal suo mondo concreto, conosciuto.
E quella specie di “Sacra Sindone”, al cui stato si è ormai rarefatta e ridotta, nelle effigi delle strade di Parigi o di Roma, la famosa fotografia di lui, è qualcosa appunto di sacrale, da non dimenticare».
Ha scritto Andrew Sinclair: «Poiché lottò per i poveri e scelse di essere sacrificato nel pieno del suo vigore, diede l’impressione mistica di essere morto per tutta l’umanità… La statura del Che appare molto più alta di quella di un essere umano, come una figura che si avvicinava a quella di un salvatore. Quando tutto fu detto e fatto, quando i suoi atti e le sue parole furono valutati freddamente e talvolta condannati, rimase la convinzione che il Che fosse stato sempre spinto dal suo amore per l’umanità e per il massimo bene del genere umano».
Più laico invece è il giudizio di Harry Villegas, uno degli aiutanti più fedeli del Che (lo accompagnò in tutte le sue campagne, dalla Sierra Maestra fino alla Bolivia): «Io credo che la sua grande diversità stesse nel suo profondo disinteresse, nel voler dare tutto ai propri simili, non come se fosse stato Cristo, come lo intendono oggi molti boliviani, ma come un uomo cosciente, pienamente convinto di ciò che è l’umanità e la giustizia sociale. Ernesto Guevara era proprio questo: un uomo con un grande senso della giustizia sociale, e ciò è dimostrato anche dal modo in cui sacrificò la propria vita e cercò una strada per aiutare l’umanità a superare i suoi profondi mali».
Da comandante guerrigliero, Guevara colpisce per l’intensità delle sue passioni, l’amore per i più deboli, la lotta contro ogni forma di discriminazione, la generosità e la coerenza del suo operato, il coraggio ai limiti dell’incoscienza, l’umanità profonda, anche per il nemico. Da tutte le testimonianze dirette, anche degli avversari, sappiamo che aveva il massimo rispetto per i prigionieri e i nemici feriti, trattandoli con dignità e giustizia: liberava sempre i prigionieri, dopo una detenzione di poche ore in cui spiegava loro le ragioni della sua guerriglia, e costante fu l’attenzione per i nemici feriti, dettata da criteri umanitari e dalla sua sensibilità di medico. Da comandante della guerriglia o da Ministro, rifiutò ogni sorta di privilegio; numerosi sono gli aneddoti legati al suo assoluto disinteresse e alla sua illimitata generosità, e molti di questi vengono raccontati in questo libro.
Guevara fu assassinato nell’ottobre 1967, alla vigilia di un anno cruciale e ricco di eventi straordinari: nel 1968 i giovani di mezzo mondo si lanciarono in rivolte trasversali – politiche, sociali, culturali, generazionali – di cui il Che, più di chiunque altro, sarebbe stato il simbolo. Qualche settimana dopo la sua morte, in Vietnam i vietcong scatenarono l’offensiva del Tet che innescò la ribellione giovanile negli Stati Uniti, nell’Europa occidentale e nell’America Latina. Ed è in quello stesso ‘68 che un’ondata di libertà si irradiò per le strade nella primavera di Praga: la rivolta giovanile per una trasformazione più umana del socialismo verrà repressa nel sangue dai carri armati sovietici.
L’immagine del Che per la prima volta apparve contemporaneamente nell’autunno caldo di Torino, nei sit-in studenteschi della Columbia University di New York e nelle manifestazioni di massa nel maggio francese al Quartiere latino di Parigi dove, uno striscione apparso alla Sorbona proclamava: «Sotto il pavè la sabbia e sopra la sabbia il Che, sole della rivoluzione». In quel 1968 l’immagine del Che (al pari di quella di Ho Chi Minh, il prestigioso presidente del Vietnam aggredito) diede voce ai desideri e ai sogni di milioni di persone e il suo poster ha rappresentato i valori di molti giovani: la libertà invece dei soldi, la rivoluzione invece del potere, la generosità invece delle comodità; fermare la guerra, ridistribuire la ricchezza, liberare le passioni, vivere sensazioni forti e inesplorate. Un’inchiesta condotta nel 1968 tra gli studenti universitari americani rivelò che la figura storica con la quale si identificavano di più era Che Guevara. Le speranze di un cambiamento di rotta della politica americana culmineranno nella candidatura di Robert Kennedy alle presidenziali nella primavera del 1968; con lui, Martin Luther King sarà il portavoce dei diritti civili, della giustizia sociale e dell’uguaglianza tra bianchi e neri. Sappiamo tuttavia la fine che fu poi riservata ad entrambi.
L’assassinio di Guevara invece ha chiuso un’epoca nella storia dell’America Latina. Con la sua morte sfuma l’obiettivo di estendere la rivoluzione in altri paesi del continente e di sottrarsi al dilemma o Stati Uniti o Unione Sovietica. All’inizio degli anni ’70 la lunga notte delle dittature oscurerà per oltre un decennio buona parte del continente, spietate repressioni stroncheranno nel sangue questi tentativi, e i golpe militari – pilotati, finanziati ed appoggiati dalla CIA – si propagheranno in rapida successione dal Brasile all’Argentina e dal Cile ad altri paesi. Così è avvenuto dovunque le missioni militari e di intelligence degli Stati Uniti hanno determinato e diretto i golpes dei gorilas, appoggiando Juntas militari e sanguinarie dittature come quella di Pinochet in Cile, di Videla in Argentina, di Papa Doc ad Haiti, di Trujillo nella Repubblica Dominicana, di Somoza in Nicaragua ed altre ancora. Dittature feroci, contro le quali è stato impossibile usare l’arma del dialogo e della resistenza pacifica, come hanno fatto Gandhi o Mandela in altri contesti storici e geografici.
Molte volte si è discusso se Che Guevara debba essere considerato un uomo della sua epoca, radicato in un contesto che non si è più ripetuto né si può ripetere, oppure se la sua figura trascenda il suo tempo e possa ancora rappresentare qualcosa di utile e attuale. Tenuto conto del crescente interesse, non solo editoriale, per la vita del Che, questa domanda risulta essere tutt’altro che banale, e straordinaria è la quantità di siti a lui dedicati che si possono trovare su Internet. Già dieci anni fa, nel trentennale della morte di Guevara il francese Michael Lowy scriveva: «Passano gli anni, cambiano le mode, al moderno succede il postmoderno, il keynesismo viene sostituito dal liberismo, il muro di Berlino dal “muro del denaro”. Eppure il messaggio di Che Guevara, a distanza di trent’anni, mantiene un nucleo forte e incandescente che continua ad ardere in quest’oscura e fredda fine secolo».
Robert Fernández Retamar, presidente della “Casa de las américas”, ha scritto: «Una delle grandi felicità di questi ultimi difficili tempi che ci è toccato di vivere è stata di vedere ritornare il Che, il suo pensiero, il suo esempio, anche tra coloro che sono nati dopo il giorno del suo assassinio. Quando questi ragazzi e queste ragazze lo accolgono, brandiscono il suo nome, il suo volto, il suo spirito di ricerca, coraggioso e perennemente fresco, sentiamo che con lui ritorna il meglio della nostra vita, il meglio della nostra gioventù, che il Che ha incarnato in modo straordinario».
Lo scrittore argentino Oscar Bayer ha detto: «Quello che oggi il Che ci insegna è il suo altruismo, la sua piena dedizione alla lotta per la dignità dei popoli, il suo disprezzo per la gloria e per il potere effimero. Poteva essere a Cuba il secondo uomo di stato per importanza, o fare l’ambasciatore presso la Corte d’Inghilterra o di Spagna, essere ammirato ed encomiato come una rara sirena nell’alta società europea o americana, o ritirarsi in Svizzera o Canada e scrivere le sue memorie per ricavare venti milioni di dollari dai diritti. E invece se n’è andato a combattere in Bolivia!».
Certo non è semplice sostenere l’attualità del Che dopo il crollo di tutte le ideologie in una società, quella globale o globalizzata, quella dell’opprimente egemonia del “pensiero unico”, dove il concetto di “cittadino” è stato sostituito da quello di “consumatore”, e dove la “partecipazione ideale alla politica” è stata sostituita dalla “partecipazione materiale al mercato”. In un mondo nel quale anche le forze poliche che hanno tradizionali radici a sinistra si vanno spostando a destra, quasi tutti i cronisti, gli storici e i politologi accostano da sempre – dandone una valenza spregiativa – l’immagine del Che a quella di Don Chisciotte. Guevara stesso si definì tale nella lettera di addio che scrisse ai genitori nel marzo 1965 prima della partenza per il Congo: «Ancora una volta sento sotto i miei talloni le costole di Ronzinante. Ancora una volta riprendo la strada, lo scudo in mano». E tale riferimento sarà ancor più esplicito in un biglietto inviato al padre dalla Bolivia, pochi mesi prima di morire, nel gennaio 1967: «In mezzo alla polvere sollevata dagli zoccoli di Ronzinante, lancia in resta per spezzare le braccia ai giganteschi nemici che devo affrontare…».
Se tuttavia per il conformismo borghese essere un “Don Chisciotte” equivale al peggiore degli insulti, per Guevara, al contrario, assume valenza nella sua versione più nobile e creativa. Che Guevara infatti è un Don Chisciotte che non combatte contro i mulini a vento, perché le ingiustizie subite dall’uomo sono un pericolo più che mai reale. E tra i molti giudizi e accostamenti questo è quello che più piace all’autore di questo libro, convinto che anche il Che lo avrebbe condiviso, perché Don Chisciotte non è un sognatore in sé, ma un uomo che lotta per i propri sogni, perché parla di non smettere di lottare, di cambiare i sogni con la realtà, di slanci generosi, di «libertà, Sancho, che assieme all’onore è ciò per cui gli uomini mettono in gioco la propria vita». Ed è soprattutto per questo che l’accostamento tra i due “sognatori” è perfetto, perché i valori di Don Chisciotte così come quelli del Che sono i valori universali dell’uomo, quelli necessari per vivere: l’amicizia, l’avventura, la generosità, l’amore, la lealtà.
Coerente con questi valori, desideroso di restituire la dignità agli sconfitti della Conquista spagnola e dei successivi colonialismi, agli umili che fanno la Storia senza mai comparire nei libri di storia, Guevara andò a combattere e morire in Bolivia. Una scelta questa, che si rivelò perdente (ma non sbagliata).
Ed è proprio un membro (Carlos Soria Galvarro) del Partito comunista boliviano – il cui gruppo dirigente tradì Guevara – ad aver sintetizzato nel marzo 1999, dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino, il messaggio dell’ultima battaglia del Che:
«Il decorso storico latinoamericano, visto globalmente e in prospettiva, fino alla caduta del Che, mostrava la possibilità di una trasformazione sociale molto profonda che avrebbe potuto avere innegabili ripercussioni nello scenario politico mondiale, all’epoca in uno stato di massima tensione per il confronto Est-Ovest, il cui epicentro era la guerra nel Vietnam. Il Che, inerpicatosi sulla cresta dell’onda rivoluzionaria che in quel momento attraversava l’America Latina, voleva far avanzare la storia in una determinata direzione, a forza di volontà e di eroismo. Di qui la sua parola d’ordine di creare molti Vietnam. Non vi riuscì. La sua sconfitta spiegabile e spiegata a posteriori da vari fattori sia interni che esterni, a nostro giudizio, non nega la validità del proposito. Qualcuno doveva tentarlo. Qualcuno doveva mettere in campo apertamente determinazione, astuzia, immaginazione e coraggio, ingredienti immancabili di ogni grandioso mutamento storico. Che Guevara e il pugno di uomini che lo accompagnò morirono nel tentativo. Se avessero trionfato, il mondo oggi sarebbe sicuramente diverso. Non importa se peggiore o migliore, ma certamente diverso. La sua sconfitta militare, vista da quest’angolatura, ha dato inizio al periodo che stiamo vivendo attualmente: un periodo che vede a sua volta la sconfitta politica e ideologica delle iniziative di trasformazione sociale e l’avvio di un’epoca di grandi incertezze sul futuro dell’umanità. Rimane, tuttavia, la sua figura emblematica che è sinonimo di trionfo morale che siamo certi continuerà ad alimentare la creazione di nuove utopie nel secolo XXI».
Fidel Castro ha scritto che Guevara non confondeva i desideri con la realtà: «Non credo che il Che fosse ingenuo, un idealista o qualcuno privo del contatto con la realtà. Il Che credeva nell’uomo. E se non crediamo nell’uomo, se pensiamo che l’uomo sia un piccolo animale incorreggibile, capace di progredire solo se lo nutriamo d’erba o lo tentiamo con una carota o lo colpiamo col bastone, chiunque creda ciò, chiunque sia convinto di ciò non sarà mai un rivoluzionario».
La conferma che gli ideali, il pensiero e l’esempio del Che non sono stati sconfitti e hanno una proiezione per il futuro, è dimostrata dal fatto che ogni giorno c’è un interesse crescente per lo studio delle sue idee, e perchè oggi più che mai c’è bisogno della riscoperta di ideali: il coraggio, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia e la democrazia partecipativa, valori per i quali il Che ha speso la propria vita. A quarant’anni dalla sua morte, il suo esempio è ancora in grado oggi di restituire ai dimenticati di Africa e America Latina – come ha scritto il cileno Luis Sepúlveda – «l’orgoglio di vivere in piedi, l’orgoglio di essere padroni del proprio destino, l’orgoglio di essere protagonisti della propria storia. In ogni giovane che crede in un altro mondo possibile, in ogni individuo che crede in una società migliore, più giusta e più etica, c’è l’esempio del Che, molto più che la sua icona culturale di sinistra o la sua figura romantica. Il suo esempio si traduce in un breve frammento dei Passaggi della guerra rivoluzionaria: “Il livello più alto dell’umanità è la dedizione, è la rinuncia al benessere personale quando la maggioranza vive nella miseria, è capire che la Rivoluzione è un atto che trasforma la società in modo che le sue future decisioni siano orientate al benessere della specie umana. Quando si capisce questo e si raggiunge quel livello più alto della specie umana, allora si è un rivoluzionario. E il dovere di ogni rivoluzionario è fare la Rivoluzione”. Il comandante Ernesto Che Guevara è ancora qui con noi e ci resterà finchè la società avrà bisogno delle giuste trasformazioni».
Sebbene la società dei consumi ne ha distorto l’immagine trasformandolo in merce, gadget, status symbol, è sbagliato ridurre il Che a semplice idolo, alla stregua di James Dean al volante di una Porsche, di Marylin Monroe con le sottane al vento, di Humphrey Bogart con l’immancabile sigaretta o di Jim Morrison a torso nudo sul palco. Manuel Vásquez Montalbán ha scritto:
«Il Che è come un incubo per il pensiero unico, per il mercato unico, per la verità unica, per il gendarme unico. Il Che è come un sistema di segnali di non sottomissione, una provocazione per i semiologi o per la santa inquisizione dell’integralismo neoliberale. E causa questo disagio non come profeta di rivoluzioni inutili, ma come scoraggiante (per il potere) proclama del diritto a rifiutare che, fra il vecchio e il nuovo, si possa scegliere soltanto l’inevitabile, e non il necessario. Insomma, la libertà fondamentale di rivendicare il necessario».
I giovani che in tutto il mondo indossano le magliette con il suo volto, benché ne intuiscano la forza in cui riconoscersi – eroico per alcuni, avventuriero per altri – poco o nulla sanno della sua vita, così come poco ne sanno i tanti che citano il suo nome quasi sempre a sproposito. Guevara non fu soltanto un uomo d’azione, come superficialmente molti ritengono banalizzando la sua immagine e preferendo l’icona del guerrigliero eroico. Nella manifestazione commemorativa tenuta all’Avana il 18 ottobre 1967, Fidel Castro ha detto:
«Il Che è stato un capo militare dalle capacità straordinarie. Ma quando ricordiamo il Che, fondamentalmente non ci riferiamo al suo valore militare. No! La guerriglia è un mezzo, non un fine.
Per i rivoluzionari la guerriglia è solo uno strumento… Ed è in quest’ambito, nell’ambito degli ideali, nell’ambito dei sentimenti, nell’ambito delle virtù rivoluzionarie, nell’ambito dell’intelligenza che – al di là del suo valore militare – sentiamo la terribile perdita che la sua morte infligge.
Il carattere del Che era forgiato da alcune virtù che molto raramente si manifestano in un’unica persona. Emergeva come ineguagliabile uomo d’azione, ma non era solo questo; intendo dire che in lui convivevano l’uomo d’azione e l’intellettuale».
La figlia primogenita del Che, Hildita Guevara Gadea, morta nel 1995, ha detto: «Credo che ci sia una differenza di fondo, tra voi europei e chi l’ha conosciuto qui. Perché voi ne privilegiate soprattutto l’immagine del guerrigliero, dell’avventuriero che salta le frontiere, un po’ ideologo e un po’ idealista, mentre noi ne abbiamo un ricordo più complesso, che somma nella sua esperienza di uomo tutte le esperienze di una vita intensa e senza risparmi. Anch’io posso essere tentata dal fascino di quella prima immagine, però poi devo ammettere che era una sola sfaccettatura della sua personalità, e non la più importante, comunque. Il più importante aspetto della sua personalità era il suo interesse reale per la gente, la sua disponibilità e voglia di capire, di tentare sempre di comprendere».
E così ha risposto quando le hanno chiesto cosa invidiava della vita di suo padre: «I suoi viaggi, di quando era ancora uno studente e lasciò tutto per andarsene in giro per l’America Latina a conoscere i paesi, la gente, le loro lotte. Partì dall’Argentina e arrivò fino in Amazzonia fra i lebbrosi, fino in Guatemala fra i ribelli sconfitti, fino in Messico alle porte degli Stati Uniti. E scoprì che eravamo un unico mondo. Gli invidio quella sua avventura a vent’anni che valse una vita, e forse anche una morte».
Giovanni Sole ha scritto: «Il Che provoca ancora forti emozioni. Gli uomini, guardando la sua immagine, sembrano ritrovare il senso della vita. Egli seduce ed eleva, suscita un senso di meraviglia e ispira nobili sentimenti. Allo stesso tempo, però, appare lontano, quasi non fosse mai esistito, al di fuori del mondo della natura. Da uomo d’azione che combatte per rifondare il mondo, da artista originale che invita i suoi simili ad amare l’umano, diventa un’opera d’arte, una figura come nessun’altra, malinconica e amata da tutti».
«Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera», recitano i versi di Pablo Neruda, poeta cileno che ha scritto un poema autobiografico il cui titolo ben si attaglia alla figura di Ernesto Che Guevara: Confieso que he vivido (Confesso che ho vissuto).
Medico e archeologo, scrittore e giornalista, fotografo e poeta, rivoluzionario senza macchia e presidente della Banca nazionale cubana, giocatore di scacchi e diplomatico, Ministro economico e comandante guerrigliero, uomo nuovo e viaggiatore senza frontiere: in una irripetibile avventura umana, il Che ha fatto di tutto. Nei suoi trentanove anni di vita ha percorso più carriere di quante avrebbe potuto percorrerne una decina di uomini. Un uomo straordinario, Ernesto Guevara, che di tempo in tempo fu chiamato Tete, Ernestito, Fuser, Tatu, Ramón, Fernando… e soprattutto, Che. Ed alla fine della sua pur breve vita, ci ha lasciato una ricca produzione letteraria: libri, diari, lettere personali e pubbliche, articoli, poesie, discorsi, conferenze, interviste, filmati, fotografie. Alcuni documenti sulla vita e sulla morte del Che sono tuttavia ancora inediti, chiusi negli archivi di Washington, Mosca, L’Avana. Chiunque abbia pertanto scritto sulla sua vita, pur attingendo alle migliori fonti disponibili – scritti e discorsi del Che, testimonianze di familiari e amici, archivi – ha dato spesso interpretazioni che riflettono posizioni proprie.
Questo libro – totalmente privo di ambizioni letterarie e il cui taglio è apertamente divulgativo – è stato concepito più per il lettore comune che non per lo studioso, e proprio per questo si presta a critiche e osservazioni. Competenze, conoscenze e studi attengono a consumati memorialisti, testimoni e studiosi dell’argomento che continuano a produrre stimolanti contributi (in particolare l’italiana Fondazione Che Guevara). Lontano da velleità letterarie e storiografiche, ho cercato di dare ordine alle numerose fonti, spesso contrapposte, partendo dalla lettura incrociata delle monumentali biografie dedicate a Guevara, cioè quelle dei coniugi Adys Cupull e Froilán González (membri della Commissione scrittori del movimento cubano per la pace e dell’Unione nazionale scrittori e giornalisti di Cuba) che hanno indagato sulla vita del Che per più di dieci anni, quattro dei quali passati in Bolivia; lo spagnolo-messicano Paco Ignacio Taibo II, il francese Jean Cormier, il messicano Jorge Castañeda, fino a Jon Lee Anderson e Pierre Kalfon.
Fondamentali sono state le fonti documentarie reperite grazie ai Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara di Acquapendente; alcune di queste sono risultate essere vere e proprie rivelazioni, grazie anche alle molte testimonianze dirette, sconosciute alla innumerevole saggistica che negli ultimi anni – con memoriali, interviste, biografie riciclate e zeppe di errori, scoop fasulli – ha riempito i banchi delle librerie con evidenti intenti commerciali.
Consapevole che, come ha scritto Paco Ignacio Taibo II, «nella storia nessuno è padrone di documenti ma solo di interpretazioni» (anche Nietzsche sostiene che nella Storia non esistono i fatti, ma solo l’interpretazione dei fatti), ho attinto dai diari dei compagni di Guevara sopravvissuti alla guerriglia in Bolivia, ma soprattutto ho dato ampio spazio agli scritti del Che, come se fosse lui stesso a raccontare la sua storia, demandandone al lettore la libera interpretazione e il giudizio. Anche perché il Che, a mio parere, con i suoi numerosi scritti è stato, inconsapevolmente, il miglior biografo di se stesso.
Per tutta la vita distante anni luce da privilegi, proprietà, denaro, il Che non ha lasciato alcun testamento (lo sottolineerà nella lettera di commiato a Fidel prima della partenza per il Congo). Ma, a mio giudizio, il suo vero testamento si trova nei suoi libri e negli altri scritti, nei quali rivela un enorme ottimismo per il futuro socialista dell’umanità, e che continuano ad essere un tesoro inesauribile di idee per le nuove generazioni.