Romanzo
Sullo sfondo di una tormentata Germania esoterica e nazista alla ricerca di se stessa, il giovane Siegfried Bauer, a sua volta alla disperata ricerca della propria identità sessuale, diventa segretario di Rudolf Hess. Ma in realtà è una spia in preda a dubbi esistenziali, coinvolta nelle complesse trame dei Servizi segreti inglesi. Iavè. Il delirio segreto di Hitler è un romanzo storico che ritrae intimamente i protagonisti del nazismo e i loro retroscena, intrecciando la fantasia con fatti realmente accaduti, come il misterioso volo di Hess in Gran Bretagna, le deportazioni, l’eugenetica, la guerra. È per realizzare il sogno di uno Stato ebraico in Palestina che certi banchieri e grandi industriali s’impegnano a manovrare Hitler nel suo delirio, portandolo a identificarsi nel dio biblico che perseguita gli ebrei per guidarli alla Terra promessa? In un susseguirsi di colpi di scena, intrighi di spionaggio internazionale e contatti medianici con Elohim, riuscirà Bauer ad accettare se stesso e a sopravvivere al Terzo Reich? Smarrito nel dolore dei suoi amori arsi nell’Olocausto, comprenderà la portata dei segreti custoditi da Hess?
1
Berlino Ovest, sera del 17 agosto 1987
Quando le guardie irruppero nella cella, il prigioniero era già morto. Lo staccarono dalla griglia della finestra per adagiarlo sul pavimento, quindi liberarono il collo dal cavo elettrico con il quale si era tolto la vita. Quel corpo rinsecchito e giallo pareva lo scarto di un cappone denutrito. In pochi minuti arrivò una lettiga che lo trasportò all’infermeria e vennero avvisati il direttore della prigione, le autorità militari inglesi, il medico per redigere il certificato di morte e il commissario del distretto di polizia dal quale il carcere di Spandau dipendeva.
Il detenuto numero Sette era speciale, ed era l’unico rimasto in quella tetra fortezza. L’ultimo dei condannati al processo di Norimberga a scontare i crimini della Seconda Guerra Mondiale. Aveva novantatré anni, Rudolf Hess, quando fu rinvenuto morto. Hess, il gerarca designato da Hitler come suo successore. Il suo Delfino.
E gli altri sei gerarchi nazisti condannati? Erich Räder, Konstantin von Neurath e Walther Funk erano usciti già negli anni Cinquanta per motivi di salute. Karl Dönitz aveva terminato i suoi dieci anni di pena, mentre Baldur von Schirach e Albert Speer i loro venti. Nel 1966.
Era rimasto soltanto lui, con la sua condanna all’ergastolo. Le autorità militari inglesi l’avevano tenuto prigioniero in una stanzetta sperduta nell’immensità di quella fortezza deserta, circondata da tre ordini di muraglioni, filo spinato, cavo elettrificato, con una sessantina di soldati a vegliare giorno e notte dall’interno e nove torri di guardia armate di mitragliatrici. Tutto per un povero vecchio dimenticato da Dio, ma non dagli uomini… Rudolf Hess.
Anche quando erano in sette, e poi solamente in tre, ai detenuti non era concesso parlare tra loro. Le celle dove languivano erano intervallate da altre vuote per impedire comunicazioni mediante alfabeto morse. Non potevano leggere né scrivere (Speer, il più giovane, aveva rischiato molto nella stesura clandestina delle sue memorie, passate all’esterno su frammenti di carta igienica e pubblicate in seguito). Il regolamento prevedeva che ogni quarto d’ora della notte le celle venissero illuminate, a scongiurare tentativi di suicidio.
Per quarant’anni, Hess era rimasto rinchiuso.
Quarant’anni di sveglie, di pane e caffè, di pulizie della stanza, d’insostenibile noia, d’inutili camminate in cortile, di cene a base di zuppa e patate all’ora del tè, in una cella sprangata e buia fino alle sei del mattino successivo. Ogni giorno così. Il tempo sembrava fermo, a Spandau. Come un sortilegio a incatenare quel vecchio malconcio in un eterno presente.
Fuori dalle mura c’era stata la grande ripresa economica della Germania, le fiamme del Sessantotto, la guerra del Vietnam, il primo uomo sulla Luna, la crisi petrolifera, la guerra del Kippur, il terrorismo, il disgelo con la Cina, dieci olimpiadi e altrettanti campionati del mondo, l’era dell’informatica e dei primi telefoni cellulari…
Un mondo che cambiava mentre quel vecchio impassibile, taciturno, immobile, giocava la sua partita a scacchi con il tempo, un giorno dopo l’altro, e tutti spietatamente uguali.
Dopo tanta solitudine, nell’arco di un’ora intorno al cadavere protetto dal lenzuolo c’era un mondo. La polizia militare inglese piantonava l’infermeria, il direttore discuteva con gli ufficiali britannici sul da farsi, l’anatomopatologo cominciava a ispezionare il corpo.
Manfred Müller, commissario di polizia del quartiere di Spandau, montò in macchina e giunse alla fortezza poco dopo la mezzanotte. Si trovò di fronte il direttore e subito gli chiese:
«Com’è possibile che si sia ucciso?»
Müller era un tipo sanguigno, robusto, sulla cinquantina. Uno di quelli che non amano perder tempo. A suo agio anche nelle situazioni più torbide, era solito muoversi in modo rapido e deciso. Nella sua carriera aveva risolto molti brutti casi di cronaca nera, suscitando invidie e alienandosi nomi importanti del suo ambiente. Abituato a sospettare di tutti, anche quella notte si era precipitato come un rapace sulla scena del presunto suicidio.
«Commissario Müller» rispose il direttore «non era nemmeno il caso che lei si scomodasse! Il prigioniero si è impiccato. Tutto qui.»
«Già, non era il caso. Invece a me è sembrato. Ogni volta può essere il caso. E poi è arrivata quella chiamata.»
«Il suicidio è evidente. Il nostro patologo ha appena terminato l’ispezione.»
«Posso vedere il cadavere?»
Il direttore annuì e a quel punto il medico, in camice verde, guanti e mascherina, sollevò il lenzuolo. Apparve un volto cianotico e scarno, dalle folte sopracciglia, occhi sbarrati e la bocca ancora spalancata. Come una singolare collana di ametista, un solco viola abbracciava il collo.
Müller provò pietà, guardò il medico e disse:
«Gli chiuda gli occhi. Non infrange il regolamento.»
Poi al direttore:
«Perché, secondo lei? Perché togliersi la vita adesso, dopo aver patito per mezzo secolo?»
«Forse è per questo, commissario. Non ne poteva più della sua non esistenza.»
Müller lo guardò con quel suo piglio ironico e ribatté:
«Non so se fosse più stanco lui di restare qui, o voialtri di doverlo sorvegliare. Da almeno vent’anni ci si aspettava questo giorno. Comunque non si spiega perché non l’abbia fatto prima. Né come abbia potuto uccidersi, sorvegliato com’era da decine di agenti armati.»
«Commissario, la prego, non cominci con le sue fantasie criminali! Non è cronaca nera, è la morte di un quasi centenario.»
«Impiccato in una stanzetta dove nemmeno c’era spazio per lasciarsi penzolare» incalzò Müller, un attimo prima di essere interrotto dal patologo che, toltosi il camice e lavatosi le mani, precisò:
«Non è impiccagione. È strangolamento.»
Seguì un silenzio imbarazzante.
«Come, dottore?»
«Le tracce sul collo della vittima sono da strangolamento. Il segno è orizzontale, non a triangolo.»
«Ci si può strangolare da sé?» domandò il commissario.
«Non è così facile.»
«Ma, secondo lei, un vecchio di quell’età può prendere un cavo della luce, legarselo al collo e stringere quel tanto da soffocarsi? Tutto questo da solo? Ci vuole una forza che con gli anni…»
«Non glielo so dire» rispose il medico.
«Andiamo, signori» intervenne il direttore «non esageriamo! Impiccato o strangolato fa lo stesso.»
«Eh no, mio caro direttore, no che non fa lo stesso» rilanciò il commissario. «Non lo fa proprio. Da soli ci si può impiccare, ma non ci si strangola.»
«Cosa vuole insinuare, Müller? Che il prigioniero sia stato ucciso?»
«Chissà. Una cosa è certa, io non concedo nessuna autorizzazione alla sepoltura di Hess prima che sia eseguita un’autopsia. Alla quale pretendo di essere presente.»
Intervenne un ufficiale della polizia militare britannica.
«Ehi, calma, commissario. Lei non può venire qui a dare ordini. Chiaro?»
Müller lo squadrò dalla testa ai piedi. Quarant’anni poco più, capelli rossicci, viso punteggiato di efelidi. Un ragazzino. Gli venne da pensare che quei “barbari inglesi” avevano bombardato la casa dei suoi genitori e ucciso i suoi nonni. Poi considerò: ma che colpa ne ha questo bamboccio che allora nemmeno era nato?
Rispose:
«Sono il responsabile di polizia di questo quartiere.»
«E io il comandante della guarnigione inglese di questo carcere. Il prigioniero appartiene a noi.»
«Già, ma questo carcere appartiene alla Repubblica Federale Tedesca. Che io rappresento. Senta, maggiore, non mi va di discutere, soprattutto a quest’ora di notte. Domani faremo l’autopsia e poi si vedrà. Mettetelo in cella frigorifera» ordinò Müller con una pietosa occhiata al candido lenzuolo.
Sia finalmente pace all’anima sua, pensò prima di uscire.
«Questa storia non mi convince» si ripeteva il commissario facendo ritorno a casa.
Non riusciva a prender sonno: l’espressione disperata di quel cadavere non l’abbandonava.
Come poteva a novantatré anni aver trovato la forza per strangolarsi? Con un cavo elettrico, per giunta! A quell’età non sarebbe stato nemmeno in grado di allacciarsi le scarpe. Senza contare che era supersorvegliato! L’intera fortezza di Spandau gravitava attorno a quel vecchietto, a quel mucchietto d’ossa che, novello Enrico iv, per più di quarant’anni aveva recitato la parte del pazzo. Perché? Per preservarsi la vita, per fedeltà a un patto stipulato con Hitler, per giustificare il suo storico volo in Inghilterra e salvare la faccia sua e di certi inglesi? Chissà. Quanti misteri venivano sepolti con quell’uomo!
In tanti l’avrebbero voluto morto ammazzato, nell’immediato Dopoguerra. Impiccato alla forca di Norimberga. Ma, adesso, che senso aveva ucciderlo? I più accaniti contro di lui erano i sovietici. Con tutti quei milioni di morti per causa dei nazisti! Fosse stato per i russi, li avrebbero giustiziati tutti nel 1947. A qualcuno avrebbe potuto interessare spegnere certi segreti insieme alla sua vita, ma chi? Gli inglesi, magari, per coprire il mistero di quel volo e non nuocere all’immagine di Churchill? I russi, perché no? La nuova politica di questo Gorbaciov, pensò Manfred Müller, potrebbe far cadere l’impero sovietico da un momento all’altro. Allora sì che ne verrebbero fuori delle belle! Chissà quanti segreti storici sarebbero svelati! Perché uccidere un uomo che non aveva più molto da vivere e aveva sempre dimostrato di tenere il segreto? Temono forse che il nuovo corso di Gorbaciov possa condurre a un’amnistia per l’ultimo gerarca nazista? Il capo del governo sovietico l’aveva lasciato intendere. A quel punto, Hess avrebbe parlato? Danneggiando chi? Gli inglesi? Certi archivi sarebbero stati aperti e i segreti divulgati?
Era il caso più interessante della carriera del commissario, che già si figurava i quotidiani di tutto il mondo l’indomani: in prima pagina avrebbero parlato tutti del suicidio di Rudolf Hess, il Delfino del Führer.
Il suicidio mette sempre a posto tutto. Non importa se sei tu a suicidarti o se ti suicida qualcuno, sempre suicidio è. Si era visto anni prima quando il governo tedesco aveva “suicidato” in carcere i terroristi Andreas Baader e Ulrike Meinhof. Ragion di Stato… e vissero tutti felici e contenti. Quelli che non morirono, ovviamente.
Il giorno seguente, il commissario Müller si recò di buon mattino alla fortezza di Spandau piantonata dalla fanteria britannica, dalla polizia militare inglese e americana, e dalla polizia federale tedesca. Fuori c’erano i cameramen delle televisioni di tutto il mondo. Il commissario interrogò i guardiani, in particolare coloro che in qualche modo avevano stretto amicizia col gerarca nazista. Venne a sapere che l’uomo più pigro di Spandau, così era chiamato dalle guardie, si era sempre rifiutato di lavorare e di frequentare gli altri sei carcerati, finché c’erano. Si era chiuso dall’inizio nel più assoluto isolamento. Appariva apatico, privo d’interesse, timoroso della morte e dell’avvelenamento, tanto da non toccar cibo per lunghi periodi. Qualcuno disse: non voleva morire, ne aveva il terrore. Pativa di dolori allo stomaco, tanto da urlare di notte per via del male. Ipocondriaco. Un ipocondriaco difficilmente si toglie la vita.
Finché c’era, l’unico ad avere verso di lui qualche attenzione era Albert Speer, l’architetto del Reich: lo soccorreva, lo proteggeva. Hess aveva un atteggiamento del tutto anaffettivo persino verso la propria famiglia, che preferiva non vedere. Come staccato ormai dalla vita. Inoltre, Müller venne a sapere che, per ragioni di sicurezza, Hess veniva messo a dormire ogni notte in una cella diversa. Tanto, con tutto quello spazio a disposizione, c’era solo l’imbarazzo della scelta! Il commissario si convinse sempre più che l’avessero ucciso.
L’autopsia fu eseguita nel pomeriggio e smentì il referto del patologo. Confermò invece l’impiccagione, suicidio causato dalla profonda depressione. Le autorità militari inglesi e quelle del carcere dichiararono chiuso il caso. Il commissario no.
In serata, Müller passò dall’ufficio per riporre talune carte, quando uno dei suoi uomini lo informò che da ore un signore aspettava di conferire con lui.
«Chi è?»
«Non ha detto il nome. Vuole parlare soltanto con lei.»
«A proposito di cosa?»
«Lo dirà soltanto a lei.»
Si sedette alla scrivania stropicciandosi gli occhi. Sentiva la stanchezza della notte insonne e dei suoi tormentati pensieri.
«Non voglio vedere nessuno» rimarcò «digli di ripassare nei prossimi giorni.»
«Ma le manda a dire che è urgente.»
«Fai come ti dico» concluse Müller con il tono alterato che era solito precedere un’esplosione d’ira.
L’agente si ritirò in buon ordine, per ricomparire pochi minuti dopo, mentre il commissario stava chiudendo la ventiquattrore per tornarsene a casa.
«Schwarz! Ancora? Sei proprio un incubo oggi! Che altro c’è?»
«Commissario… quell’uomo…»
«Di nuovo? Ti ho detto di cacciarlo!»
«Non intende muoversi. Dice che è questione di vita o di morte.»
«Ma di che si tratta, buon Dio?»
«Della morte di Rudolf Hess.»
Come un fulmine.
Il commissario si paralizzò e sentì la tensione allentarsi, finché le gambe non ressero più. Si sedette.
«Fallo salire» sussurrò con un filo di voce.
Quando lo sconosciuto si affacciò nell’ufficio del commissario, a Müller sembrò un visitatore giunto da un mondo parallelo, tanto distante era dalla realtà delle cose.
Dal primo momento, quel vecchio calvo, un’ottantina d’anni ben portati, alto, magro, dalla schiena eretta e fiera, non fece altro che fissarlo negli occhi. Non uno sguardo alla stanza o al tramonto che indorava gli arredi allungandone le ombre sul pavimento o alla scrivania traboccante di carte.
«Si sieda» invitò il commissario indicando una poltroncina.
«Grazie.»
Si accomodò senza smettere di fissarlo.
«A cosa devo questa visita, signor…?»
«Il mio nome non conta, commissario Müller. Quel che potrei rivelarle, quello sì conta.»
Parlava con voce ferma, stentorea, ma nelle pause prendeva fiato, come uno che soffrisse d’asma.
«Allora racconti. L’ascolto.»
«Ha tempo?»
«Sì.»
«Perché io non ne ho molto. Vede, potrebbe essere il mio ultimo giorno di vita questo.»
«Perché? Che cosa vuol dire?»
«Beh, a ottantasette anni non si ha in genere una lunga aspettativa.»
«Sì, ma pensare di morire proprio domani! Sta male?»
«Non particolarmente. Gli acciacchi di noi vecchi. Ha un bicchier d’acqua?»
«Certo.»
Il commissario aprì un piccolo frigo dal quale estrasse una bottiglia di minerale.
«La versi pure, la berrò più tardi» disse. «Mi fa male l’acqua fredda.»
«Vuole altro? Birra? Ho del cognac.»
«Grazie, non bevo più alcolici.»
Müller si versò una birra ghiacciata e andò a sedersi di fronte a lui. Disse:
«Che cosa sa della morte di Rudolf Hess?»
«Molte cose. Tante. Troppe.»
«Perché troppe?»
«Vede, commissario, quell’uomo non si è suicidato. È stato ucciso.»
«Lo so. L’avevo capito. Ma lei come fa…?»
«Come faccio a saperlo? Se ha tempo di ascoltarmi, le racconterò tutto. Una vera esclusiva, mi creda. Mi ci vorrà tutta la notte, o giù di lì. Almeno credo. Lei ha tempo?»
«Sono abituato a interrogatori notturni» rispose Müller.
«Ma ha il viso stanco. Credo che non abbia dormito questa notte.»
«Già. Andiamo avanti! L’ascolto.»
«Sa perché l’hanno ucciso proprio ieri?»
«Lo dica lei.»
«Pensi alla data.»
«Diciassette agosto. Non mi dice niente.»
«A lei. A qualcun altro sì. Ieri era l’anniversario della fondazione della Società di Thule. Il settantesimo, per l’esattezza.»
Il commissario rimase qualche istante in silenzio. La Società di Thule gli ricordava qualcosa, ma cosa? Un certo gruppo di esoteristi, pensò, prima ancora dell’avvento del nazismo. Persino Hitler e molti gerarchi vi appartenevano. Thule, la mitica isola del Nord, s’identificava con Atlantide. Ed era stata la matrice del Terzo Reich.
«Non ricordavo» ammise Müller «ma perché proprio questo anniversario?»
«La Società di Thule era in un certo senso un’emanazione della Golden Dawn inglese.»
«Non capisco.»
«Hanno inviato un segnale a qualcuno. Che rischierebbe la stessa fine, se mai gli venisse voglia di parlare.»
«Perché la Thule? Perché la Golden Down?» incalzò Muller.
«Forse perché tutto cominciò da là. Vede, commissario, quello che le racconterò mi costa, ma è un dovere morale nei confronti dell’umanità. Quasi sicuramente pagherò con la vita ma, cosa vuole, mi è indifferente. Alla mia età… A lei invece potrebbe costare di più. Se la sente?»
«Non farei questo lavoro se avessi paura.»
«Bene, io l’ho avvisata. Potrei anche dirle: guardi che torno domani così abbiamo più tempo ma, le ripeto, non so se ci sarà un domani per me. Rischierei di non poter fare questa deposizione e lei si troverebbe magari a richiedere un’autopsia sul mio cadavere.»
«Perché teme di essere ucciso?»
«Non temo, è certo. Appena sapranno che ho vuotato il sacco. Si dice così, vero?»
È un mitomane, un paranoico? si chiese a quel punto il commissario. Il suo sguardo sbarrato, in qualche modo, gli ricordava quello del prigioniero la sera prima. Tentiamo di cavarne qualcosa, disse tra sé, ormai che siamo in ballo.
«Mi dica chi l’ha ucciso.»
«Se vuole sapere chi sono stati gli esecutori materiali dell’omicidio di Rudolf Hess, coloro che l’hanno strangolato con quel cavo elettrico, ebbene le dirò che sono due agenti dei Servizi segreti inglesi che hanno ricevuto l’ordine dal British Home Office, il Ministero degli Interni britannico. Due del XXII Reggimento del SAS, Special Air Service, Bradbury Lines di stanza a Hereford. L’assassinio del ministro del Reich è stato progettato dal MI5, la Military Intelligence per la sicurezza interna, così velocemente che l’operazione non ha nemmeno avuto un nome. Tranne la data, che è una firma evidente. Per questo lei ha trovato e troverà tanto ostruzionismo da parte delle autorità britanniche. Con le sue indagini sta ostacolando i loro piani e non mi stupirei se nei prossimi giorni lei finisse per essere trasferito. Nella migliore delle ipotesi.»
«Che cosa c’entra l’Inghilterra con l’anniversario della Società di Thule?»
«L’Inghilterra c’entra sempre. In tutte le operazioni e in tutti gli eventi di questa Terra. Gliel’ho detto: Thule aveva a che fare con gli inglesi fin dall’inizio.»
«Mi ha convinto. Se intende raccontare, sono a disposizione.»
L’orologio della chiesa batté le otto. Un volo improvviso di piccioni sembrò salutare quel che del sole restava prima del suo sonno notturno.
Il vecchio accostò il bicchiere di minerale alle labbra, ne bevve un piccolo sorso, lo depose e annunciò:
«Allora iniziamo, Müller. Se vuole capire chi ha ordinato la morte di quel pover’uomo e perché, devo cominciare dall’inizio. Vero è che le vicende non hanno mai inizio né fine e sono sempre conseguenza di altre, ma in questa complicatissima storia ci sono antefatti da ripercorrere. Pertanto dovremo fare molti passi indietro e ritornare alle memorie di un’Europa dei primi anni Venti. Quasi settant’anni fa. Bisogna rievocare la storia che inizia, pensi un po’, da un monaco spretato. E da una bellissima donna dai lunghi capelli biondi. Una maga, tra le più potenti. Da un gruppo di giovani femmine affascinanti e sapienti che facevano impazzire gli uomini, vere e proprie erinni affamate di sesso e di conoscenza. E da una società di studiosi delle origini della razza ariana. Ma prima ancora, da una certa cena nell’antica casa dei Bauer, che poi cambiarono il nome in Rothschild. Doveva essere, se ben ricordo, il 1921…»