Romanzo
Maurizio Falconi, un consulente finanziario, da qualche anno si è trasformato in una persona fredda e cinica che non si aspetta più nulla dal futuro. La vita dell’uomo è a pezzi. Finché un giorno in un ristorante incontra Anna, una donna dalla bellezza radiosa che lo saluta con un grande sorriso e che per tutta la cena non gli toglierà mai gli occhi di dosso. Dal cameriere l’uomo verrà a sapere che la donna è cieca. Grazie a questo incontro Maurizio non solo ricomincerà a dipingere, sua passione di gioventù, ma entrerà in contatto con alcuni ex-operai e umili artigiani della zona. A poco a poco, attraverso l’amicizia che quella povera gente dimostrerà a Maurizio, l’uomo ritroverà un rispetto per se stesso e per gli altri come mai gli era capitato di provare prima.
Il giorno dell’inaugurazione della sua mostra di pittura Maurizio farà una scoperta che lo sconvolgerà e gli farà comprendere quanto la vita possa essere meravigliosa.
“Nel mondo della fantasia tutto vola, anche cani, gatti,
persone e interi paesi. Perché nel mondo della fantasia non ci sono catene.”
I
A settembre inoltrato l’aria della città era ancora molto calda, resa ancora più calda dai gas di scarico delle automobili e dei mezzi pubblici.
L’estate quell’anno era stata particolarmente lunga e più torrida della precedente, con bolle di calore africane che non facevano piovere per settimane, e che alla fine esplodevano in potenti tempeste tropicali che per qualche ora si portavano via ogni cosa sul loro cammino. La tregua durava la parentesi tra il tramonto e le ultime ore della notte ma, all’alba del mattino seguente, la temperatura saliva vertiginosamente in men che non si dica e si viveva un altro giorno senza respiro, con l’umidità alle stelle e gli abiti che ti si appiccicavano addosso come un sudario a un cadavere.
Il dottor Maurizio Falconi uscì da uno dei quattro ascensori dalle porte d’acciaio che dal ventitreesimo piano lo depositarono a pianterreno. L’atrio, dal pavimento in marmo bianco striato di grigio, era ampio e luminoso, con alti soffitti e finestre ad arco oltre le quali si apriva un giardino sul retro. Al di là dell’atrio si srotolava l’arteria cittadina congestionata di traffico a tutte le ore. L’aria condizionata che pervadeva l’intero ambiente, da terra all’ultimo piano del grattacielo, trasmetteva una piacevole sensazione a chi lavorava al suo interno, l’equivalente di una placenta che lo proteggeva dall’inferno che stava al di là di quelle pareti di cemento, vetro e acciaio.
L’uomo teneva con la mano destra una ventiquattrore di pelle marrone piena di documenti; con la sinistra si sistemò la cravatta mentre si avviava verso l’uscita a passo spedito.
– Buonasera Spini. Ci si vede – disse.
– Buonasera anche a lei, dottore, e buon fine settimana. –
La porta a vetri si aprì al suo passaggio, una vampata di afa più pesante di un macigno lo investì in pieno volto togliendogli il respiro e stringendogli il petto in una morsa. L’uomo camminò fino al marciapedi. Il taxi era una station wagon con il numero Zurigo 27. Avrebbe già dovuto essere lì ad attenderlo ma non c’era. L’uomo sollevò gli occhi al cielo. Un trapezio sghembo e un quadrato di azzurro sudicio erano quanto di meglio il cielo riusciva a ritagliarsi oltre i tetti dei grattacieli e i tetri edifici della città. L’uomo abbassò gli occhi e scrutò la strada a sinistra. Intravide il taxi bianco a un centinaio di metri, dietro una Mercedes nera, con alle spalle un’interminabile coda di auto che aspettavano il verde del semaforo. Erano le diciotto e venticinque minuti. Considerando il traffico caotico, Maurizio Falconi pensò che, anche se la stazione ferroviaria era poco distante, l’avrebbe raggiunta in non meno di venti minuti, il che voleva dire che avrebbe avuto circa un’ora per buttare nello stomaco qualcosa prima che il treno delle diciannove e cinquantadue se lo portasse via per scaricarlo a casa, più o meno due ore dopo. Era sempre stato puntuale quel treno, non poteva permettersi il lusso di non farsi trovare nella carrozza numero sette, seduto al posto numero diciannove, come recitava il biglietto, altrimenti quella sera avrebbe dovuto fermarsi a dormire all’Hotel della Stazione, che puzzava di formaggio rancido e aveva mobili che cadevano a pezzi, o in alternativa in qualche hotel del centro troppo distante dalla stazione e assai costoso, invece di trascorrere la notte nella sua villetta ai piedi del lago dopo una settimana di lavoro che gli piaceva sempre meno. “Da anni, ormai, sempre meno” rifletté mentre faceva segno al taxi di fermarsi.
L’uomo aprì la portiera, si infilò nel mezzo pubblico e disse: – Buonasera. Alla stazione per favore. Mi piacerebbe aggiungere: “prima che può” ma penso che si limiterebbe a indicarmi la coda di auto e a dire: “Veda lei”. –
– Mi ha letto nel pensiero – rispose il tassista, poi ingranò la marcia e, messa la freccia, si immise un’altra volta nel traffico infernale della città. Nello specchietto retrovisore i suoi occhi sbirciarono per un paio di secondi il cliente che sedeva alle sue spalle.
– Io a lei l’ho già portato una volta – disse l’uomo con una voce stridula.
Maurizio guardò con attenzione i suoi occhi nello specchietto retrovisore.
– Non ricordo, ma se lei ne è sicuro… –
– Sono fisionomista, ho memoria per le facce, di alcune più di altre, e sono più che sicuro di averla già portata sul mio taxi. –
– Non è escluso: ci vengo spesso alla Martelli & Leoni. –
– È un ingegnere? –
– No. Faccio consulenze fiscali, contabiltà… roba di numeri. –
– Non ne capisco niente di certe cose. –
“E io sempre meno” pensò l’altro, tenendo quelle parole per sé.
All’imbocco della piazza con la statua di Vittorio Emanuele ii a cavallo sopra un piedistallo di marmo, a una ventina di metri dal taxi, d’improvviso si materializzò una donna vestita di un elegante tailleur color beige e scarpe con tacchi a spillo, che attraversò la strada correndo, l’espressione trafelata, due belle gambe che sfidavano la vita con nessuna visione di nessun futuro. Il tassista se la trovò davanti a pochi metri e frenò bruscamente. La donna voltò il capo verso di lui e per una frazione di secondo studiò di che morte avrebbe potuto morire, ma non mise le mani avanti, non si fermò né indietreggiò di un centimetro, continuò invece a correre, scomparendo un attimo dopo tra un’auto e l’altra.
– Cazzo! Quella è una pazza! – esclamò il tassista.
Maurizio ebbe un tuffo al cuore.
“Silvia. No… non può essere lei. Silvia vive da anni a Londra con Massimo. Ma sembrava proprio lei.”
Il cuore a poco a poco riprese a battergli normalmente, ma la scossa di adrenalina già gli aveva portato l’amaro in bocca. Deglutì e rivide Silvia davanti ai suoi occhi come fosse la prima volta, tanti anni prima, quando Dio era dalla sua parte e lui apparteneva all’esigua schiera degli immortali e la vita era piena di sogni e bastava allungare una mano per afferrarli. Rivide Silvia corrergli incontro come in un b-movie americano, con un sorriso smagliante come da copione, i lunghi capelli al vento, il sole sul suo viso, gli occhi pieni di amore che avrebbe dato solo a lui e “una voglia di vivere tutta la mia vita con te”, come gli aveva detto una volta. A certe promesse si crede quando è l’amore a farle, cieco e spudorato e gonfio della tracotanza che hanno gli inganni più belli, quelli che si presentano come la più fulgida delle verità.
Nei pochi attimi in cui quella donna gli aveva attraversato la vita, seduto in quel taxi nel centro di una metropoli senz’anima e sangue, Maurizio rivide la donna che aveva sposato appena dopo la laurea e che avrebbe dovuto stare al suo fianco finché la morte non li avesse separati. Pensò che se quella fugace visione lo aveva ricacciato in quel misero stato mentale, voleva dire che sebbene tentasse di convincersi di essersela scrollata di dosso, Silvia continuava a essere un fantasma capace di apparire, non annunciato, a una qualunque ora di una notte qualsiasi per ricacciarlo ancora una volta nell’abisso più profondo. “Ma forse non è più così, perché non la sogno tanto spesso come una volta. Silvia è uscita dalla mia vita come un ladro nella notte dopo avere messo a soqquadro una casa portando via ogni cosa, e il saccheggio durava già da cinque anni e non me ne ero mai accorto. Cinque anni non sono venti o trenta o una vita fa, ma sono pur sempre del tempo, e il tempo è arte. Non so se ho fatto buon uso del tempo che è venuto dopo di lei. Ho avuto qualche donna, peraltro di poco conto, riti di passaggio durati lo spazio di una notte, e mi sono gettato a capofitto nel lavoro. Mmh… il tempo dei ‘ti amo’ e poi la porti fuori a cena e le mandi un mazzo di rose il giorno dopo e a poco a poco nasce qualcosa e ci mettiamo insieme, è acqua passata, ormai.”
– Alla fine forse arriviamo in stazione prima di quanto pensassi – disse Maurizio al tassista dopo avere guardato l’orologio.
– Vediamo dopo che avrò svoltato a sinistra – fece l’altro.
L’auto imboccò via Giambattista Vico, che a quell’ora di solito era una fiumana di metallo e gomma, e che al contrario si presentò scorrevole.
– Stasera san Cristoforo, il patrono dei viaggiatori, è dalla nostra parte. Fra un minuto siamo in stazione. –
Gli ultimi raggi obliqui del sole accendevano di luce d’oro i marmi della facciata della stazione. Il taxi imboccò la corsia riservata alle auto pubbliche e si accodò alle altre, ferme in attesa di caricare chi era appena sceso dai treni. Dall’auto davanti a loro stava uscendo una coppia di anziani. L’uomo, un figura allampanata vestita di una completo color kaki, afferrò la valigia che l’autista aveva tirato fuori dal bagagliaio, pagò e si allontanò con passo lento in direzione dell’ingresso della stazione, con la moglie aggrappata al suo braccio. Era una donna bassa e grassa, con gambe arcuate e scarpe con tacchi consumati all’esterno.
Il tassametro segnava sedici euro e cinquanta centesimi. Maurizio porse all’uomo una banconota da venti.
– Tenga il resto. Buona serata. –
– Grazie signore, buon viaggio. –
L’atrio della stazione era un viavai di gente che camminava frettolosa in tutte le direzioni. Lungo la parete a ridosso di un’edicola, due barboni, sdraiati l’uno accanto all’altro su un letto di cartoni, dormivano incuranti di tutte quelle voci e di quei passi, avvolti in vecchie coperte sudicie e sbrindellate. Non era uno spettacolo inusuale imbattersi in senzatetto, spacciatori, tossici, ladruncoli d’ogni specie, immigrati irregolari, pregiudicati, persone che ti allungavano la mano a un centimetro dalla faccia implorandoti di dare loro qualcosa.
L’uomo imboccò la lunga scala mobile che l’avrebbe portato ai binari. Si frugò nella tasca del completo blu di lino da cui estrasse il cartoncino del biglietto ferroviario e lesse ancora una volta: carrozza numero sette, posto numero diciannove, binario undici. “Già… binario undici. Sempre lo stesso. Strano che l’avessi dimenticato.”
Arrivato in cima alla scala mobile, svoltò a destra e iniziò a percorrere il lungo corridoio. Sfilarono il negozio di elettronica e quello di giochi e souvenir, l’ufficio informazioni, quello della polizia ferroviaria. Una decina di metri più avanti scorse l’insegna Chef Guido. Ogni volta che andava alla Martelli & Leoni, se c’era abbastanza tempo si fermava per una cena veloce da Chef Guido, un locale con pochi tavoli ma arredato con gusto e che offriva buoni piatti per essere un ristorante di passaggio. Se al contrario non c’era tempo, si prendeva al volo un panino e una bottiglia di acqua minerale.
Maurizio entrò nel locale e si guardò attorno. Chef Guido era deserto, il che voleva dire che sarebbe stato servito subito, e avendo un’ora a disposizione, non avrebbe dovuto strozzarsi come altre volte. Prese posto a sedere al primo tavolino che gli stava davanti e fu a quel punto che si accorse che di fronte a lui, con alle spalle il muro, stava seduta lei, una donna bionda con capelli ondulati che le arrivavano fino alle spalle, vestita di un abito chiaro di cotone e una giacca rosa.
– Buonasera – disse Maurizio.
– Buonasera a lei – rispose la donna con un luminoso sorriso.
L’uomo notò che aveva occhi di un blu marino capaci di leggerti dentro, un naso perfetto e una bocca dal taglio dolce, e che non era truccata.
“È davvero molto bella, e ha occhi che non si dimenticano facilmente” pensò. […]
Enzo Braschi, dopo la laurea in Filosofia con una tesi sulla spiritualità dei Nativi americani delle Grandi Pianure, si dedica al mondo dello spettacolo divenendo un apprezzato attore televisivo e cinematografico.
Autore di vari documentari sugli Indiani d’America, dal 1996 al 2003 prende parte alla Danza del Sole – la cerimonia più sacra dei Nativi. Per Verdechiaro Edizioni ha pubblicato La conoscenza segreta degli Indiani d’America, Mi chiamo Bisonte Che Corre, Io ricordo e i romanzi Oltre, La dea dei golosi, L’ultima donna e Di Terra e di Luce.