Un romanzo che racconta la mai conclusa lotta fra il bene ed il male
Kyōto, intorno al 1550. L’epoca dei samurai, dell’onore e delle battaglie, dove la parola data vale quanto la vita stessa.
Il giovane Principe Jōdo, figlio dello Shōgun, si trova a vivere delle esperienze che gli daranno la capacità di rivelare la sua interiorità, permettendogli di combattere i soprusi e le ingiustizie con ferma determinazione.
L’eroe di questa vicenda è un eroe molto attuale, e rappresenta la ribellione contro il potere in quanto tale, il potere senza coscienza.
Jōdo ci insegna che tutto può accadere nel momento in cui qualcuno si pone al Servizio del “Piano Divino” e che ogni ostacolo può essere superato se il piccolo ego lascia il posto al “Disegno” che unisce ogni essere vivente in questo meraviglioso Universo, dal quale tutto nasce e nel quale ogni cosa fa ritorno.
Kyōto – Giappone, intorno al 1550
Come ogni mattina Jōdo si trovava nel cortile del grande palazzo dove viveva; accanto a lui stava il generale Hiyomori che da circa quindici anni, praticamente da quando Jōdo si poteva reggere in piedi con le proprie forze, era stato il suo unico maestro di vita.
Gli aveva insegnato ad andare a cavallo, a leggere, a pensare ed agire come un vero samurai: «Principe ci sono delle regole da seguire che sono più importanti della vita stessa!».
«E quali bushi?» chiese il giovane usando quel termine a lui tanto caro e che stava a significare “guerriero”. Gli piaceva usare quel termine affettuoso con il generale Hiyomori poiché lo considerava quasi suo padre. In effetti il suo vero padre, lo Shōgun in persona, lo vedeva di rado e quando si incontravano era freddo, quasi distaccato; non aveva mai pronunciato una parola dolce nei suoi confronti, mai la sua mano aveva accarezzato il viso del figlio.
Dal canto suo al generale piaceva essere chiamato bushi. Non lo diceva ma si vedevano i suoi occhi sorridere ed i suoi lineamenti, induriti da mille e più battaglie e dal ricordo dei corpi dei nemici martoriati dalla sua katana, la spada dei samurai, si scioglievano come neve al sole e diventavano dolci, quasi infantili nella vana ricerca di una fanciullezza mai vissuta.
«Ricorda di rispettare sempre i tuoi avversari, di non sottovalutarli mai anche se li credi inferiori a te…» e così dicendo strinse la sua forte mano sull’impugnatura della katana. Per un attimo se ne stette fermo con lo sguardo perso nel vuoto poi, volgendosi nuovamente verso il giovane continuò: «Ma ora basta parlare mio Principe. Ho giurato a tuo padre di farti diventare un grande samurai ed il mio compito è quasi terminato».
Si diressero così verso le stalle dove era già stato preparato il cavallo di Jōdo. Era un meraviglioso cavallo bianco con il quale il giovane si esercitava anche al tiro con l’arco, compiendo un percorso sempre diverso, con i bersagli spostati ad arte dal generale per coprire tutte le possibili angolazioni di tiro. Era un esercizio molto faticoso perché il Principe doveva stare in groppa al cavallo solo con la forza delle proprie gambe in quanto le braccia dovevano essere libere per poter scoccare le frecce. Il generale gli aveva insegnato anche a colpire il centro del bersaglio con gli occhi bendati ed a Jōdo piaceva tantissimo perché provava una sensazione unica; il bersaglio non esisteva più, era dentro di lui, ma ancor di più sentiva come lui fosse sia la freccia che il bersaglio.
Finito l’estenuante addestramento Jōdo amava restare con bushi ridendo con lui nel ricordare le prime volte quando, scendendo da cavallo, aveva le gambe talmente doloranti che non riusciva neppure a camminare, e osservando dove erano finite le frecce, il generale, che lo aveva bendato, esclamava: «Ah ah ah… si salvi chi può!».
Ma quel giorno successe una cosa che non si sarebbe mai aspettato. Dieci guardie personali dello Shōgun lo vennero a prendere perché avevano l’ordine di scortarlo alla sala delle grandi cerimonie, dove suo padre gli voleva parlare.
«Dimmi bushi, cosa vorrà mio padre?» Jōdo era fuori di sé.
«Non sta a me dire quello che passa per la mente dello Shōgun, ma è sicuramente una cosa molto seria se ti ha fatto chiamare nella sala più importante del palazzo.»
«Ma come dovrò comportarmi con lui in quella circostanza? Cosa dovrò dire? E com’è quella sala? E come…»
«Mio Principe un po’ di pazienza. Ora ti accompagno nelle tue stanze. Devi indossare il più bel kimono da cerimonia che possiedi. Nel frattempo cercherò di darti qualche consiglio che potrà esserti utile.»
§ § §
Accovacciate su di un grande giaciglio stavano una accanto all’altra la Principessa Omi e la figlia Jōruri; era solo una bimba quando suo padre scelse il ragazzo che avrebbe dovuto sposare. Era il figlio di un Principe molto potente di nome Noriaki Kairi, capo di un clan rivale. Questo matrimonio era stato fortemente voluto dallo Shōgun allo scopo di far terminare le scorribande che orde di mercenari assoldati dal Principe Noriaki compivano nelle città dove sventolava il vessillo del clan Nahaji. Anche se il dominio dello Shōgun non era in pericolo, data la forza del suo esercito, quelle scorribande creavano un senso di sfiducia fra i suoi alleati.
Ora la Principessa Omi sapeva che poco mancava alle nozze della figlia e che avrebbe dovuto prepararla, che avrebbe dovuto iniziare a spiegarle molte cose, ma allo stesso tempo era molto triste al pensiero che Jōruri sarebbe dovuta andare in sposa ad un uomo che non apparteneva ad una famiglia onorabile. Sapeva però anche che non potevano mancare alla promessa fatta dallo Shōgun al Principe Noriaki, visto che da quel momento in poi le scorribande erano cessate.
Jōruri aveva i capelli lunghi e neri come l’ebano e Omi amava pettinarli e adornarli con fiori secchi, che con il loro profumo la facevano tornare con la mente ai suoi giochi nella casa d’infanzia, alle corse nei campi ed al profumo del sudore dei cavalli che tornavano stanchi nelle stalle.
«È strano…» disse Omi senza guardare in faccia la figlia «non mi sono mai sentita così a disagio nel doverti parlare, siamo state sempre molto sincere l’una con l’altra, ma c’è una cosa che non ti ho mai detto e credo sia arrivato il momento di parlarne…».
«Non farmi aspettare! Sai che sono tanto curiosa!» disse Jōruri guardando sua madre con gli occhi sgranati come volesse strapparle le parole dalla bocca.
«Tuo padre mi ha detto che a giorni invierà una staffetta dal Principe Noriaki del clan Kairi perché porti qui a palazzo suo figlio Akira e si facciano le presentazioni di rito… tu dovrai sposare quel giovane e dargli dei figli!»
Jōruri fissava le labbra della madre che si muovevano mentre le parlava. Erano delle labbra bellissime, di un colore caldo e morbido, talmente perfette che sembravano dipinte. Le piaceva molto stare a guardare sua madre quando si accingeva a preparare il colore con il quale si truccava; studiava le sue dita agili ed affusolate che sceglievano con sicurezza i petali migliori di tante varietà di fiori e li mescolavano assieme creando poco a poco un impasto che poi avrebbe usato per rendersi ancora più attraente di quanto già non fosse.
Ma quella volta quelle labbra le sembrarono di ghiaccio, fredde ed inespressive nel pronunciare quelle parole che per lei rappresentavano una strada senza uscita, una imposizione che avrebbe condizionato tutta la sua vita. Si sentì quasi svenire, provò dentro di sé una malinconia terribile, ma quello che più la faceva soffrire era la consapevolezza che tutto quello che aveva immaginato per la sua vita si stava dissipando come una nuvola di vapore.
Avrebbe voluto parlare, urlare che non era d’accordo ma sapeva benissimo che sarebbe stato tutto inutile, così non disse neppure una parola. Sentì gli occhi che si stavano gonfiando di lacrime ma non volle darlo a vedere così si alzò lentamente ed uscì in terrazza.
La Principessa Omi capì quanto gravoso fosse quel momento per la figlia e decise di lasciarla sola: «Cara figlia torno nelle mie stanze, se avessi bisogno di me…» fece un profondo sospiro ed uscì, senza neppure finire la frase, con l’anima piena di tristezza.
Jōruri indossava un kimono azzurro molto leggero, scollato ed aperto sui lati; si adagiò su di una grande poltrona di bambù e sentì il viso inondarsi lasciando scorrere le lacrime come non le era mai successo. Il vento le muoveva i capelli sul viso ed il leggero tessuto del kimono si gonfiava come una vela colta dal maestrale lasciando intravedere un corpo già formato. Le lacrime continuarono a scendere scorrendo sul collo. Si guardò, posò la mano sul seno e si rese conto di essere diventata donna; si sentì morire all’idea di dover offrire se stessa ad un uomo che non amava, ad un uomo che era stato scelto per ragioni politiche e militari.
Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dai sogni, quelli erano ormai l’unica cosa che nessuno le avrebbe mai potuto rubare.
Fabio Previati
Nato a Venezia, è stimato baritono di fama nazionale e internazionale ed ha cantato con grandi artisti come Ricciarelli, Domingo, Freni, Bruson, direttori come Mehta, Viotti, Maazel, Oren e con registi del calibro di Pizzi, Zeffirelli, De Ana, Strehler. La duttilità vocale gli permette di interpretare ruoli seri quanto buffi in teatri quali L’Arena di Verona, L’Opéra Bastille, il Teatro Regio di Parma. Ha inciso CD e DVD. Questo è il suo primo romanzo.