Sei tu a scegliere un fox, o è lui a scegliere te?
«Cos’è un fox se non una molla vivente, uno strappo di vento, una scheggia impazzita, un’esplosione di gioia?»
Questo è un libro di amore, quindi volutamente non tecnico, che racconta di quei veri e propri concentrati di gioia ed energia allo stato puro chiamati fox terrier, capaci come autentiche rockstar di trasformare ogni membro della famiglia in cui capitano in un loro sfegatato fan. Esemplari eleganti, spesso di alto lignaggio, sono nobili nel portamento quanto scellerati nella difesa del loro territorio. Molto affettuosi con gli umani, sono cacciatori implacabili di tutto ciò che si muove nel loro raggio d’azione: dalla farfalla al leone, se mai ne passasse per caso uno.
Sguardo innocente e atteggiamento incolpevole, sono killer nati con l’apparenza da angeli. Questi e tanti altri gli aspetti affrontati dall’autore che racconta per propria esperienza episodi in cui sentimenti, emozioni e momenti di allegria si mescolano a giorni di trepidazione e tristezza, specie nel momento del commiato fatale.
Un universo condiviso con i tanti amanti di questa razza che popolano la realtà virtuale dei social e non hanno mancato di arricchire il libro con un contributo o una personale testimonianza. Chi ha scelto di possedere un fox terrier è una persona speciale, dotata di curiosità e decisa a cimentarsi in un genere di rapporto unico, entusiasmante e decisamente coinvolgente.
Introduzione
Prologo
Artù I
Artù II
Artù III
Artù IV
I fox e il cibo
I mantra d’amore
La disciplina
Fox Dream
La Fox Social Family
Gli ammalati di foxite acuta
Curiosità per curiosi fox-dipendenti
Chi comanda chi?
Poche parole per riassumere in estrema sintesi l’intera storia fatta di amore e rispetto tra Guido e i suoi fox.
Il mio lavoro di veterinario mi porta inevitabilmente a stare ogni giorno in mezzo a cani e gatti. Una professione che forse trae origine dalla mia adolescenza quando mi emozionavo leggendo Creature grandi e piccole di J. Herriot.
Ebbene, quelle stesse sensazioni le ho ritrovate adesso tra le pagine del libro di Guido Guerrera. La storia di Artù, non ha importanza quale dei quattro, è la storia antica basata sul profondo rapporto tra uomo e cane: un legame fatto di amore, di prevedibili arrabbiature, di spaventi improvvisi, ma specialmente di grande intesa. Il tutto trasformato in fotogrammi dai colori vividi e sempre diversi raccontati con mano lieve e divertita dallo stesso autore.
Come non sorridere quando formaggi e salamelle spariscono ad opera di un ladruncolo molto abile lasciando a bocca asciutta l’incauto proprietario? Per non parlare dell’esilarante scena del fox che si appropria di un flauto di canne allo scopo di farsene con calma una bella scorpacciata.
Insomma il racconto de La mia Vita con i Fox è un crescendo di ironia e autoironia che a mio parere diventa irresistibile quando lo stesso scrittore viene trasformato a un certo punto dalla convivenza col suo cane in una specie di smarrito viandante sbattuto fuori dal proprio letto.
Gli aneddoti esilaranti di questo tono abbondano nel libro. Poi fatalmente il sorriso si spegne e diventa amara cronaca di una perdita quando arriva l’inevitabile fine di ognuna di queste storie, così simili e uniche allo stesso tempo.
Presto e per fortuna alla fatidica frase “mai più” si sostituirà d’improvviso il “mi manca”. Chi ha vissuto lunghi anni con un cane troverà impossibile farne a meno.
Ed ecco allora comparire un nuovo compagno che per non tradire la stirpe si chiamerà ancora Artù. Artù IV, detto sette e mezzo per il suo carattere intemperante, subito capace di ridare il sorriso, di animare la casa dove vive ed essere alleato di nuove avventure.
Sono convinto che La mia vita con i Fox sia la classica lettura che si fa tutta d’un fiato, così avvincente che quando arriva la fine si rimpiangono tutte quelle pagine che forse avrebbero meritato di essere ancora scritte.
*Loris Pazzaglia è medico chirurgo veterinario e svolge la sua professione da diversi decenni presso la Clinica Galilei di Prato. È noto, tra l’altro, per avere svolto la sua attività di chirurgo al Bioparco di Roma con interventi complessi su animali feroci come tigri e orsi.
Prologo
Chi ha un cane, è perché ha sognato di averlo da sempre. Io sono tra quelli. Mi inventavo di averne uno quando avevo cinque o sei anni e anche se era fatto di legno me lo trascinavo dietro con una cordicella che azionava un meccanismo rudimentale in grado di fargli aprire e chiudere la bocca e anche di scodinzolare. Lo avevo chiamato Jack. Quel suono mi piaceva, mi dava l’impressione dello scatto che avrebbe prodotto su di lui facendomelo saltare addosso a comando e nello stesso tempo mi sembrava un nome affettuoso, uno di quelli tirati fuori dalle serie televisive in cui pullulavano cani e saggi cowboy da film western.
Jack era un nome di cui fidarsi, da vecchio Jack… a patto che non si sbronzasse troppo.
Avevo dieci anni e lo vidi per davvero: era giallo, magro e muscoloso, aveva un muso simpatico e occhi espressivi, nocciola. Era una domenica soleggiata di autunno. Ci seguì, me e mia madre, fino alla porta della chiesa. Al termine della funzione era ancora lì: non ho mai resistito di fronte a simili prove d’amore.
Non sapevo se appartenesse a qualcuno, o fosse un randagio: lo sentivo mio e basta e mi ero innamorato di lui a prima vista, esattamente come mi sarebbe capitato sempre per altri versi. Insomma, sentivo che si era stabilito un patto di complicità forte e indissolubile, come nelle favole, come riesce ad esserlo solo il legame tra un animale e un bambino. Lo volevo portare a casa, mia mamma tenne duro e io di più. Ma non durò molto. Un giorno Jack scappò in strada come una saetta forse attratto da istinti irreprimibili che io non potevo ancora comprendere e una macchina lo prese in pieno.
Fu il mio primo, grande, immenso dolore bambino che ancora da adulto si fa sentire ogni tanto come una vecchia ferita rimarginata ai cambi di stagione. Ci riprovai molti anni dopo e con maggior fortuna portando a casa un batuffoletto bianco e nero di nome Rolf. Stavolta fui io ad abbandonarlo, quando mi iscrissi a una università del nord, poi dopo qualche mese seppi che la leptospirosi lo aveva ucciso. Rolf era un meticcio simpaticissimo, vivace e intelligente: amava l’anguria e l’amaro Averna che mio padre ogni tanto gli dispensava di nascosto. Il collarino rosso spiccava vistosamente sul manto nero, aveva una sua popolana eleganza e non disdegnava di condividere la sua ciotola con le mie cuginette piccole. Mi era stato regalato da Mauro, il bassista del gruppo che avevo formato con Gianni Siracusano, Dario Miroddi e altri ragazzi che adesso lottano come me con gli acciacchi dell’età. Rolf era la nostra mascotte e spesso lo infilavamo nella 500 che per prodigio inspiegabile riusciva a contenere, oltre noi, di tutto: compresi gli strumenti musicali ovviamente. Quando andavo a prendere a scuola Silvana, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, Rolf mi faceva fare una gran bella figura e io sapevo che avevo a fianco un compare sul quale contare: affidabile, giocherellone e misuratamente ruffiano.
Gli anni seguenti avrebbero fatto precipitare eventi e mutato circostanze. Avrei lasciato la mia città, i miei ricordi, mia moglie dopo una separazione precoce quanto il mio matrimonio, e Rolf. Ero stato io fino a quel momento a preoccuparmi delle visite dal veterinario e naturalmente dei vaccini. Per una forma di colpevole indolenza endemica nella mia famiglia di origine, credo che dopo la mia partenza nessuno in casa si fosse sognato di provvedere al richiamo. Questo gli è costato una fine prematura. Forse c’erano in casa altri problemi da risolvere, non so: però chiunque dovrebbe capire assolutamente che un cane non è un giocattolo di peluche e possederne uno mette il termometro a senso di responsabilità e generale grado di maturità.
“Quando avrò una casa tutta mia sarà diverso” mi dissi. E riuscii a mantenere la promessa, aiutato da circostanze casuali in graduale evolversi. Per dire la verità, infatti, la mia prima casa era per forma una specie di grande canile: un monolocale dalla bizzarra forma di una carrozza ferroviaria. Pareti a volta e una approssimativa suddivisione fra living, cucinotto e bagno tutti messi in fila indiana.
Lì la vita da cani ce la facevo già io, ed era escluso che potessi condividere quell’abituro con qualunque altro essere vivente. Poi mi ero finalmente lasciato lusingare nuovamente dalle delizie di una vita a due, ma l’appartamento di un condominio popolare mal si prestava a ospitare un amico peloso.
Un giorno arrivò quasi per magia la svolta che attendevo e sognavo. Mi fu proposta una casa in campagna, nelle colline toscane e non troppo distante dal centro abitato. Perfetta: aveva anche un giardino con una staccionata in legno esattamente come mi era capitato di immaginarla tante volte scarabocchiando con la fantasia su di un foglio di quaderno.
Ora era vera, e potevo dire finalmente di avercela fatta. Ma un cane lo devi scegliere, oppure come nel caso di un buon libro è meglio che sia lui a scegliere te? Avevo deciso di restare in filosofica attesa, che conoscendo la mia impazienza poteva protrarsi per non più di una settimana. E poi dopo sette anni di matrimonio mi ero detto che, abbandonati progetti procreativi, adottare un bambino a quattro zampe poteva essere utile a scongiurare i fantasmi della fatidica crisi, creando interessi nuovi e motivi di allegria in casa.
Fernando arrivò provvidenziale in questo periodo di sospensione e di incertezze vicino al dubbio. Fernando alleva cani e ha un maneggio di cavalli di razza andalusa. Allora aveva due cani di sua proprietà: giocavano con i suoi figli piccoli, Francesco e Caterina. Erano due splendidi fox a pelo liscio: Sole e Luna.