«Una storia limpida e luminosa. Un racconto che emana la saggezza e il soffio vitale dei racconti totemici di Joanne Harris, Laura Esquivel, Isabelle Allende, Violette Ailhaud. Tutti dovrebbero conoscere i sacri poteri iscritti nel nostro patrimonio genetico umano. Tutti dovrebbero scoprire i privilegi del vivere in afflato con la natura e la magia di tutti gli altri esseri senzienti.»
Una donna silenziosa, l’Inglesa. Diafana e schiva. Arrivata un giorno in un paesino di montagna dell’Appennino tosco-emiliano. Sopra Pistoia. Non si era mai vista, lassù. Una donna come lì non ve ne erano. In un borgo chiuso e duro come un pugno, in cui lei fa nido. Una donna che su quelle montagne trova il suo nascondiglio. Una solitaria che sa camminare in salita con la fatica. Muta, come i montanari. Con lei un cane, una lupa nera. La sua ombra.
Un femminile sacro, sapiente. Ancestrale. Quel femminile che non viene più trasmesso da madri, nonne, ave. Eppure esiste, sepolto, nei nostri tessuti, permeati di pratiche antiche e sensualità. Quel sentire che rende l’aria il vento fertile dell’amore. Quel connettersi profondamente con le stagioni, le direzioni, le piante, le orme degli animali selvatici e il loro spirito, che dona senso alle cose. Dalle radici alle stelle.
Una storia che sancisce e ricorda il sacro legame antico con la terra e i suoi elementi. Con il cuore e le sue profezie. Per non scordare che gli elementi, sacri, essenziali, sono parti integranti di ognuno di noi. Per non dimenticarsi di vivere ringraziando.
Con fotografie di Luigi Riccioni
Messaggio per tutte le donne
Capitolo 1. L’Inglesa
Capitolo 2. La loba
Capitolo 3. La Dea
Capitolo 4. Le tese
Capitolo 5. L’anima palco
Capitolo 6. Donne Diga
Capitolo 7. L’amore
Capitolo 8. Atto magico
Capitolo 9. Torta morbidissima
Capitolo 10. HeyOh!
Capitolo 11. Adieu
Nota dell’autrice
Ringraziamenti e curiosità
Accadde così. Arrivò un giorno in Appennino, portando con sé la neve. Arrivò all’improvviso e nessuno sapeva chi fosse. Camminava silenziosa, imperterrita. Camminava su quelle montagne dove camminare è come vivere, un tacito atto di fede.
Selvaggia, apparve subito una donna selvaggia. Capace di camminare su crinali preclusi per antonomasia agli stranieri. Perché le montagne hanno un cuore, accessibile solo ad alcuni, e non permettono che chiunque le calpesti.
Ma lei era l’Inglesa e le montagne la fecero passare.
E quelle rocce sconnesse e sassose accettarono di essere calpestate. Quelle rocce che si estendono da sopra Pistoia, lungo una strada da presepe, la Porrettana, dove l’asfalto e le curve diventano scivolosi e le case viste dall’alto sembrano capre arrampicate, abbarbicate su quelle rupi. Le radici sdrucciolose dei faggi, zuppi d’inverno, avevano già compreso, quello che ancora non era stato colto dagli uomini.
Lei passò in quella terra benedetta dagli Dei, dove la solitudine fa da padrona. La solitudine vera, umida, di chi i geloni, il sudore e la fatica li guarda dritti. E dove la sopravvivenza si insinua nei pertugi di pietra, lungo un fiume che nasce dal Monte la Croce: il Limentra.
L’acqua, qui, è ancora acqua. Pura. Viva. Gelida che a starci dentro con i piedi ti si frantumano le ossa. Così pura, viva e gelida che il freddo entra perfino nello scheletro dei morti.
La mia terra, è fatta da mani rugose. Di chi il gelo lo annusa, lo respira, lo esplora. Lo conosce e lo teme. Lambita da quella vena liquida torrenziale e tortuosa che, da secoli, accompagna in salita e in discesa, all’arrivo e alla partenza: pastori, scrittori, nomadi, viandanti, commercianti, famiglie, eremiti e quei pochi turisti che, per caso e a fatica, arrivano fin qua. A noi, contadini di montagna, disperati e tenaci, ci si arriva dopo. Molto dopo.
Siamo all’ombra, ai piedi, alle pendici di un demone sacro. Il Corno alle Scale: 1.945 metri di argilla scagliosa dal carattere bisbetico. La vetta più alta che vanta il territorio bolognese. Una volta, quel monte, era un monte supremo. Divino. Ma da quando lo squartarono come un lembo di carne con la lama della rendita, deturpando la sua schiena con gli impianti sciistici, quella montagna, da viva e solenne, divenne furiosa. Collerica. Ferita. E non perdonò più nessun umano.
Ogni tanto, qualcuno ci muore ancora lassù.
Mai scalare quella montagna – qualsiasi montagna! – senza chiederle il permesso. Si è ospiti nel suo ombelico, sulla sua pelle. Come le formiche d’estate sul nostro corpo. Un soffio, una schicchera: e vai giù, nei precipizi del vuoto. Siamo soliti dire, in senso dispregiativo, che il cuore può trasformarsi in pietra. Eppure il cuore è fatto di roccia. Vulcanica. Secoli prima draghi e sirene deposero nello sterno delle montagne il loro folgorante cuore sacro, un cuore capace di ricordare.
Il cuore è un fossile: ricorda tutto.
L’Inglesa, questo lo sapeva. Conosceva perfettamente il tempo dei draghi e delle sirene. Conosceva il dialetto degli elementi, la forza centripeta delle parole, per questo non le dilapidava mai. Comunicava con gli spiriti nascosti dentro a quelle rocce e con le voci della Natura. Era l’unica a riuscirci.
Con quella vetta inviperita, sassaia assolata d’estate e dorso di mano innevato, rovinosamente friabile, d’inverno, lei riusciva persino a dialogare.
Qualcuno l’aveva vista più volte allontanarsi nella nebbia. In salita: lei e le sue gambe. Sulla schiena portava solo uno zaino e al suo fianco c’era, sempre, una lupa. Nera.
E, quel qualcuno sostenne – con avventori, curiosi e pettegoli locali – che, dopo l’arrivo di quella donna sulla montagna, le nuvole si erano rasserenate, come se fossero state accarezzate da dita conosciute. Su quelle vallate, sempre in ombra, le nubi si erano diradate permettendo un varco alla luce.
Ella sapeva ricucire con l’aria, l’abisso. Le sue preghiere erano balsamo per le ferite di Dio. Il suo. Il mio. Quello del silenzio del lupo e del tasso schivo.
Stanco del peso plumbeo, anche il cielo sorrideva mentre lei continuava a camminare.
Altri la videro salire sulle pareti scoscese e sui massi rocciosi, con tempesta in arrivo. Inavvertitamente, lei continuò la scalata, incurante dei lampi che le schioccavano sulle caviglie come scintille di metallo.
Si racconta che arrivata di fronte la montagna, si mise a ballare. La videro danzare insieme alle saette. Si diceva. E tra quelle scariche elettriche che le cadevano, a schioppo, tra i polpacci e gli stinchi. I tuoni le sconquassavano il torace. Ma lei non sudava, non piangeva: ballava per placare il cuore. Il suo e quello della montagna.
Pazza, la chiamarono pazza. Scriteriata. Folle.
Le urlarono di andarsene via, ma lei continuò a danzare ascoltando solo il cuore della montagna. E la montagna rispose e tutti poterono vedere come la pioggia bagnava il suo volto, senza ferirla.
Strega, demonessa, incantatrice. Ma la montagna respinse quelle parole. Aveva accettato di farsi calpestare da chi conosceva le regole dei mondi perduti.
Altri, pensarono allora che facesse danze tribali. Sconosciute. Proibite, poiché la fantasia ad immaginare è provocatrice e abile seduttrice. Poi pensarono che lei parlasse, a quel modo, con i venti. Con i tuoni. E le direzioni. Mentre il Corno urlava gelide raffiche di vento.
A Febbraio, quella montagna era permalosa. Peggio: pericolosa. Dilaniata da chi l’aveva violentata. E difficile ad essere addomesticata dal passo umano. Era come il carattere dei suoi abitanti. Eppure, l’Inglesa, ci lasciò qualcosa di suo lassù. Un omaggio. Una offerta. Un pezzo di sé. Un pegno. Un voto. Chissà cosa si dissero realmente, lei e la montagna.
Ma lei tornò viva e i draghi e le sirene sorrisero dal cielo.
Nei primi anni del 2000 visita l’Appennino tosco-emiliano, quello del Parco del Corno alle Scale. Da allora trascorre, ogni anno, periodi di selvatichezza ed eremitismo in quei luoghi – curativi secondo lei – a cui questo racconto si è ispirato e ai quali è dedicato.
Da tempo si dedica alle pratiche del femminile sacro. Appassionata di passeggiate nel bosco. Etologia. Trekking. Meditazione. Sciamanesimo.
Questo è il suo primo romanzo.
Raccontato a voce come fossimo seduti in cerchio attorno ad un fuoco sacro.
Lo sguardo di questo libro ha il dono di osservare le relazioni umane nel loro legame con la Madre Terra. Che siano i boschi di faggio, castagno, querce delle vallate. O le foreste svettanti di abeti, larici e dei faggi delle aspre pareti di roccia arenaria dei duemila metri.