E se la tua città nascondesse molto di più di ciò che vedi?
Romanzo
«Ettore Majorana era un illuminato. L’universo l’aiutò a scoprire un mondo che stava al di là dell’apparenza. Quando il noto fisico intuì la possibilità di entrare in contatto con questa dimensione dell’essere, proprio a Lucca si ritirò in un monastero della periferia per scoprire senza interferenze come accedere a quella vera luce…»
La storia racconta che il noto fisico Ettore Majorana andò in Germania, dove entrò in contatto con la filosofia nazionalsocialista. Qui iniziò a condividere le proprie ricerche e i propri sogni anche con persone malvagie, che non ci pensarono due volte a informare Hitler. Majorana intuì l’errore compiuto e le conseguenze enormi che sarebbero scaturite se le sue scoperte e le sue ricerche fossero cadute nelle mani sbagliate. Quindi, nell’agosto del 1933, fuggì dalla Germania e si rifugiò a Roma, dove iniziò una vita segregata.
Il mistero di Majorana e della sua prematura scomparsa pare non sia risolto del tutto e la sua storia riesce, ancora oggi, a suscitare tanti interrogativi e fantasiose supposizioni.
In questo libro il lettore sarà condotto a ricercare i segni del passaggio del noto fisico soprattutto a Lucca, accompagnato dalle vicende di Jonas Gentili, un uomo amante della tranquillità e della vita senza troppi imprevisti.
Ma perché Majorana ha scelto proprio Lucca per concludere le sue ricerche e, forse, la sua vita? A questa domanda cercherà di rispondere il protagonista del romanzo compiendo un viaggio alchemico ricco di avventura e sorprese che lo porterà a scoprire che, come ebbe a scrivere Ettore, «all’origine di avvenimenti umani si trova un fatto vitale egualmente semplice, invisibile e imprevedibile».
Con l’aiuto del professor Pacifici, un cabalista in pensione, e Ariel, un enigmatico personaggio, Jonas avrà l’opportunità di scovare quel fatto vitale, che i cabalisti chiamano “Luz”.
Prologo
Cadde a terra. A stento ce la fece a mettersi supino. Con le poche forze che gli erano rimaste, inspirò tentando di riprendere quella vita che gli stava fuggendo di mano ancora una volta.
Nonostante gli occhi si chiudessero per la pioggia, riuscì a scorgere l’intreccio dei rami della quercia sopra di lui. Gli venne in mente che per troppo tempo aveva vissuto all’interno di un labirinto in cui tutto ritornava come eco delle sue parole e dei suoi pensieri; un dedalo che si era creato per proteggersi da un mondo spietato e che, lentamente, si era trasformato in una prigione. Percepì una frattura, una crepa che si stava allargando.
Ebbe paura. Qualcuno lo aveva ferito. Non se n’era accorto subito. Vide prima il sangue e poi avvertì un dolore devastante all’altezza del petto.
Di nemici ne aveva avuti parecchi nel corso della sua storia, ma nessuno aveva mai azzardato tanto. La vista gli si annebbiò, per cui sentì più forte la spinta ad aggrapparsi a quello sprazzo di luce che filtrava dalla feritoia.
Ora che gli occhi si stavano chiudendo, poteva vedere con più nitidezza ciò che aveva sempre inseguito.
Riecheggiò in lui un’antica voce: «Fino a quando continuerete a nascondere la mia gloria? Per sempre amerete la vanità e andrete dietro alla menzogna?»
Non fece in tempo a dare un senso a quelle parole.
Il sangue era diventato una pozza, portandosi dietro calore e vita.
Era morto un sacco di volte nella sua carriera, ma così mai.
Esanime, chiuse gli occhi e rivide il momento in cui tutto era iniziato.
I
La mattina del tredici settembre 2007 Jonas Gentili iniziò la sua nuova attività come vicedirettore della casa editrice Mellontikós.
Uscì dal suo appartamento eccitato. Scese le scale a due a due e, una volta fuori dal condominio, fece un salto lanciando un pugno al cielo.
I raggi del sole, filtrando tra un palazzo e l’altro, risposero al suo gesto avvolgendolo di un’energia inedita, mentre l’aria salubre, respirata a pieni polmoni, gli infuse vigore e sicurezza.
Il suo capo gli aveva riservato l’ufficio al secondo piano del palazzo della casa editrice in via Nazario Sauro, a pochi passi dalle mura della città di Lucca.
I muri di cartongesso, diventati grigi a causa dell’incuria e del fumo, esponevano qua e là quadri ingialliti raffiguranti nature morte e paesaggi intristiti. Una scrivania spiccava al centro, mentre dietro si apriva un’ampia finestra che guardava sul tetto di un’antica chiesetta.
Jonas si buttò sulla sedia, mise i piedi sul tavolo e si guardò intorno.
Trasformerò questo mortorio in un luogo solare e luminoso.
Non era raro che si entusiasmasse all’idea di poter cambiare lo stato delle cose in cui la vita lo stava gettando. Ogni volta che cercava di spiccare il volo, però, saliva troppo in alto e finiva per cadere, deluso. Questo senso d’impotenza lo schiacciava, senza offrirgli una minima possibilità di cambiamento. E in quei momenti neppure l’aiuto dei farmaci o della cocaina riusciva a dargli l’energia sufficiente per alzarsi dal letto e iniziare la giornata. Ora, però, quell’assunzione rimetteva ogni tassello al suo posto. E ciò gli dava l’illusione di un certo potere su se stesso e sul mondo circostante.
Il compito di fare una prima scrematura dei manoscritti spettava ai redattori o ai collaboratori esterni, il suo lavoro consisteva nel fare scouting sui migliori autori che gli venivano proposti. Gli era stata affidata anche la direzione delle due collane di punta della casa editrice: “Esoterica” e “Un mondo migliore”.
Bussarono alla porta.
«Avanti!» gridò, mentre cercava di trovare una postura più consona.
Entrò la figlia del direttore. Era sì e no una coetanea. Capelli castani a caschetto, occhiali all’ultima moda, camicetta bianca avvolta da un cardigan cenere con cui cercava di nascondere le rotondità.
Avanzò un po’ goffamente verso Jonas.
«Tieni, tesoro, ecco il tuo primo pacco di manoscritti» sbuffò, gettando uno scatolone pieno di fogli sulla scrivania.
Poi si allungò verso il volto di lui e, con lo sguardo ammiccante, miagolò: «Micetto, dopo tutta questa fatica non mi dici neanche “grazie”?»
L’altro, che nel frattempo si era alzato, la raggiunse in fretta, la strinse a sé e senza dire nulla la baciò.
La donna, sorpresa dalla repentinità dei gesti, dopo un momento di imbarazzo lo respinse.
«Non qui, scemo! Ci potrebbe scoprire mio padre» replicò a malincuore.
Poi si avviò verso la porta. Prima di chiuderla, guardò nel corridoio e si voltò: «Stasera alle otto nel tuo appartamento. So che lì saprai come ringraziarmi».
Rimasto solo, Jonas si avvicinò alla finestra. Si scoprì a sogghignare nel riflesso del vetro.
«Benvenuti nella casa editrice Mellontikós. Qui vi sentirete come a casa vostra. Dovrete lavorare sodo perché, come dice il nostro nome, desideriamo gettare le fondamenta culturali per un futuro diverso in Italia.»
Erano in dieci attorno al tavolo ovale della sala riunioni. Jonas se ne stava seduto un po’ in disparte. Da lì poteva studiare meglio i suoi avversari. Due o tre avevano sì e no una ventina d’anni, gli altri parevano più maturi. Il ticchettio nervoso delle mani sulle ginocchia tradiva l’ansia di molti, mentre il movimento sussultorio delle gambe metteva in evidenza l’emozione e l’impazienza dei più “anziani”. Uno sbarbatello aveva lo sguardo perso nel vuoto, mentre la maggioranza annuiva silenziosamente a ogni affermazione di chi stava parlando.
Ad accoglierli era stato l’editore in persona. Rimasto in piedi per tutta la durata del discorso, pareva appesantito dai suoi settant’anni, evidenziati anche dai capelli ricci grigi e da una postura leggermente piegata in avanti. Scandiva lentamente le parole, accompagnandole con ampi gesti delle braccia.
Jonas prese nota nella sua mente di ogni particolare, di ogni difetto, di ogni debolezza. Osservare la gente da una certa distanza gli era tornato utile fin da piccolo. L’aveva imparato il giorno in cui la maestra per la prima volta lo mandò dietro la lavagna. Fu una rivelazione. Vista di fronte, quella donna si mostrava un’arcigna e perfida arpia. Gli sputacchi che regalava durante le spiegazioni, le urla e gli strattoni che elargiva nelle sue sfuriate, incutevano terrore e paralizzavano anche il più tremendo degli alunni. Ma da dietro la lavagna il mondo si capovolgeva. Da lì era possibile notare dei particolari che rendevano quella strega quasi normale: le calze smagliate, le punte delle scarpe che grattavano i polpacci, le ginocchia che ballavano durante le interrogazioni.
«Per i prossimi sei mesi verrete assunti come stagisti. Al termine, tra i più meritevoli, ne selezionerò uno per ricoprire la carica di vicedirettore. Per la vostra formazione vi offriremo un corso in editoria, che vi fornirà le dovute conoscenze e competenze per lavorare nel settore dell’industria culturale. Mia figlia Stella sarà la vostra tutor.»
Apparve sul ciglio della porta una donna paffutella. In mano aveva una serie di cartelline che usava a mo’ di scudo per nascondere l’imbarazzo e la vergogna.
Il padre le fece cenno di entrare e lei iniziò a distribuire il materiale agli undici candidati.
Passando dietro Jonas, le cadde qualche foglio e lui non ci pensò due volte ad alzarsi per raccoglierli. Si mise poi davanti a lei, e glieli porse sfiorandole la mano. La donna ebbe un fremito, lui se ne accorse e iniziò a fissarla, ma lei abbassò lo sguardo diventando rossa.
Di fronte a quella scena la voce dell’editore si fece più grave: «Nelle cartelline trovate il contratto e tutti i vostri impegni per i prossimi mesi, buon lavoro».
Gli stagisti si alzarono e salutarono il direttore. Quando fu il turno di Jonas, l’anziano capo gli strinse la mano un po’ troppo forte: «Non ti azzardare a toccare mia figlia. Se vengo a sapere che l’hai sfiorata di nuovo, non solo esci da quella porta, ma ti tolgo anche la possibilità di procreare. Ci siamo intesi?»
Jonas non resse lo sguardo e annuì con la testa.
La sera stessa era nel letto del suo appartamento con la timida Stella.
Cara Stellina, in guerra tutto è permesso.
Fece un sospiro e si mise a sedere. Tolse dallo scatolone le proposte editoriali e iniziò a leggerle. Tre tomi furono gettati nel cestino dopo le prime cinquanta pagine. Gli altri riuscirono ad arrivare alle cento. Solo uno catturò la sua attenzione. Era una sorta di romanzo-biografia sulla vita di Ettore Majorana, la cui misteriosa scomparsa aveva suscitato non poche speculazioni.
Ciò che colpì l’attenzione di Jonas furono le ipotesi un po’ strampalate dell’autore, un certo Ariel Baldacchi, circa gli eventi accaduti dopo il 1938, anno in cui si erano perse le tracce di Majorana.
“Ettore era un illuminato. L’universo l’aiutò a scoprire un mondo che stava al di là dell’apparenza. Quando il noto fisico intuì la possibilità di entrare in contatto con questa dimensione dell’essere, proprio a Lucca si ritirò in un monastero della periferia per scoprire senza interferenze come accedere a quella vera luce. Del resto conosceva bene la città. Più volte, con la famiglia, si era recato in una casa di Viareggio per trascorrere le ferie e godersi l’aria salubre della Versilia. Fu proprio in una di queste gite che volle visitare la Certosa di Farneta.”
Lette queste ultime righe, Jonas sprofondò nella sedia, si mise la penna in bocca e guardò fuori della finestra.
Accidenti… Farneta! Questo tizio o è un pazzo o, se ciò che dice è vero, può apportare una luce nuova sul mistero Majorana.
Per la casa editrice poteva essere un ottimo caso editoriale. Per questo Jonas decise che nei giorni seguenti avrebbe tentato di contattare l’autore per fissare un appuntamento.
Il giorno dell’incontro si presentò un tipo sulla sessantina con indosso una t-shirt bianca e un paio di jeans logori. Le scarpe da tennis davano l’idea di un tipo atletico e anche il fisico mostrava i segni di sporadici rendez-vous con la palestra.
«Buongiorno. Sono Gentili, vicedirettore della casa editrice Mellontikós» lo salutò Jonas, alzandosi e porgendo la mano.
«Piacere, Ariel Baldacchi.»
«Un caffè?» chiese, indicando il distributore automatico nella saletta comune.
«No, grazie. Sono un tipo all’antica. Non li voglio i prodotti usciti da queste macchine infernali» precisò l’altro alzando la mano.
Jonas guardò il suo caffè con aria sorpresa; poi, facendo spallucce, invitò l’altro ad accomodarsi.
«Ha un accento nordico. Non è di queste parti, suppongo.»
«In effetti vengo da un posto molto lontano. Comunque mi sono trasferito da pochi anni a Tofori. Conosce?»
«Uno splendido paesino sulle colline lucchesi! Ma veniamo a noi» tagliò corto Jonas, prendendo tra le mani il malloppo di fogli dall’angolo destro della scrivania.
«Certamente. Vedo che ha apprezzato il mio manoscritto, e la cosa mi riempie di gioia.»
«Sì, a questo proposito vorrei appunto parlarle di…»
«Un momento» lo interruppe l’altro con un gesto della mano. «Prima che continui, se permette, vorrei spiegarle il vero significato del mio libro.»
Jonas annuì, curioso, posando i fogli sul tavolo. Quel tipo pareva davvero convinto delle proprie idee. A detta sua aveva tra le mani uno scritto che avrebbe cambiato le sorti dell’umanità, e non vedeva l’ora di renderlo noto.
Jonas, inizialmente scettico, si lasciò galvanizzare soprattutto dall’entusiasmo dell’autore, tanto da prendere a cuore la sua opera e decidere di proporla al direttore editoriale per un’eventuale pubblicazione.
Un mese dopo, la redazione si riunì per considerare eventuali inediti e lanciarli, se ritenuti idonei, sul mercato.
Jonas attese con ansia il proprio turno. Quando, finalmente, si alzò in piedi e iniziò a esporre i pensieri che si erano venuti a materializzare nella sua mente, si sentì pieno d’energia e, contento di aver scovato un talento proprio nella sua città, si adoperò in ogni modo per convincere l’uditorio ad accogliere il suo progetto. Nel momento in cui, però, incrociò lo sguardo perplesso del capo e dei colleghi, abbassò gli occhi e terminò l’intervento con un filo di voce. Aveva capito che la sua proposta non sarebbe stata accolta.
«Scu… scusate» balbettò, rimettendosi a sedere e abbassando gli occhi.
Quello era lo scritto di un folle.
Passò invece l’idea di un collega, che proponeva di pubblicare un elenco di ricette che la nonna di un noto calciatore aveva lasciato prima di morire.
Il mondo di Jonas cadde, frantumandosi nel terreno dei sogni irrealizzati.
La sera si ritrovò appoggiato al distributore del caffè con lo sguardo perso nel vuoto, mentre gli altri colleghi se la stavano ridendo di gusto.
Quello che aveva ottenuto la pubblicazione delle ricette, gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
Jonas lo fissò, ringraziandolo per quel gesto di solidarietà, ma l’altro lo appiccicò al muro e sogghignò: «Vedi Jonas, andare a letto con la figlia del capo può averti fatto comodo per ottenere il posto di vicedirettore, ma pare che non ti serva a nulla per ingraziarti suo padre».
Gli altri proruppero in una nuova fragorosa risata.
«Vieni Jonas, giochiamo agli indiani» lo invitò l’amico più paffutello.
Si trovavano nel bosco di Farneta, il paese dove era nato e cresciuto, a pochi chilometri da Lucca. Insieme a lui altri cinque bambini, tra gli undici e i dodici anni, scorrazzavano liberi tra la vegetazione.
«Tu fai il cowboy e noi gli indiani che ti hanno fatto prigioniero» propose il più piccolo.
«Ecco qua una corda, leghiamo il viso pallido a quel pino» comandò il grassoccio.
«Non così stretta, mi fate male. E poi quest’albero è pieno di pece. Dopo chi la sente la mì mamma» piagnucolò Jonas.
Gli altri non fecero caso alle lamentele e cominciarono a girare intorno al malcapitato, prorompendo in forti grida e canti disarmonici.
Alla fine, a un segnale del capo, fuggirono tutti gridando: «Arriva l’esercito, arriva l’esercito scappiamo!»
In un batter d’occhio si dileguarono nel bosco, lasciando Jonas da solo.
Passati diversi minuti in silenzio, il prigioniero iniziò a mugolare: «Ehi, ragazzi venite a liberarmi!»
Non avendo ottenuto nessuna risposta, la sua voce si fece sempre più tremula: «Ragazzi, dai, il gioco è finito! È tardi, a casa mi borchieranno!»
«Ragazzi?!» gridò per chiedere aiuto.
Venuta la sera, scorse suo padre sbucare da un viottolo secondario. Si sentiva umiliato e avrebbe pagato chissà che cosa pur di non farsi vedere in quello stato proprio da lui.
Abbassò il capo e non osò guardarlo in faccia. Il babbo lo slegò e gli dette uno scappellotto: «Che ne sarà di te? Sei un ingenuo e un debole. Se non cambi ti farai continuamente legare a un albero da chi è più furbo di te».
Jonas si scosse, come svegliato da un sogno. I colleghi stavano ancora parlottando e ridendo tra loro.
Si avvicinò al gruppetto e cominciò a sbraitare: «È vero, sono andato a letto con Stella per avere il posto. Intanto però sono vicedirettore e guadagno il doppio di voi, pezzenti!»
Furono catturati da un tonfo. Si voltarono di scatto verso il corridoio e videro Stella impietrita. Ai suoi piedi un mucchio di libri sparsi alla rinfusa.
Jonas sbiancò e corse verso di lei.
«Esci subito da questo posto e non farti più vedere, brutto bastardo!» iniziò a gridare la donna.
«Ascoltami, io volevo solo…»
«È da tempo che sospettavo della tresca tra te e mia figlia» sbucò da dietro di lei il direttore, «ma lei, caduta nella tua trappola come un’ingenua, ha sempre negato tutto. Adesso prendi le tue cose e sparisci dalla mia vista. Sei un uomo perfido e approfittatore, non sei degno di stare al mondo. Fuori!»
Tornato a casa, lanciò le sue cose sul divano. Poi si avvicinò al mobile bar per stordire ancora una volta quella sensazione di tristezza e di sconfitta che lo stava avvolgendo.
Sei uno stronzo, un debole, non meriti di vivere. Aveva ragione tuo padre, sei un fallito!
Versò un bel po’ di Talisker invecchiato dodici anni nel bicchiere, e si gettò anche lui sul divano. Accese la tv e rimase per molto tempo come inebetito.
Lo sguardo di Jonas si era già perso nel tubo catodico, quando lo squillo del cellulare lo fece sobbalzare.
No, non aveva voglia di rispondere. Desiderava stare con la mente vuota per non pensare più. Fece cadere lo smartphone sul tappeto e finalmente il rumore insopportabile della suoneria smise di importunarlo.
Si sdraiò e chiuse gli occhi per abbandonarsi al sonno, che giungeva provvidenziale in momenti come quelli.
Di nuovo quel suono.
Dopo vari tentativi riuscì ad afferrare l’apparecchio con l’intento di spegnerlo, ma poi lesse il nome sul display. Era Baldacchi.
Ebbe un fremito alla pancia e un tremore gli risalì fino alle spalle. Non sapeva se rispondere o meno. Cedette.
«Pronto? Salve Baldacchi. Mi ascolti…»
«Salve a te. Possiamo darci del tu?»
Jonas cercò il telecomando per spegnere la tv. Lo individuò sotto il cuscino, ma nell’allungarsi per afferrarlo fece cadere il cellulare. Il risveglio repentino e il whisky avevano intorpidito i suoi riflessi. Con difficoltà riuscì a recuperarlo.
«Pronto? Pronto Ariel, sei ancora in linea?»
«Eccomi. Ho udito un fracasso. Tutto bene?»
«Sì, sì. È solo che oggi le cose non vogliono andare nella casella giusta» disse, dopo aver spento la tv. «Dunque. Non voglio tenerti in ansia. La casa editrice ha scartato il tuo manoscritto.»
«E allora?»
«E allora non verrà pubblicato. Prova a bussare a un’altra porta» disse Jonas tutto in un fiato, iniziando a picchiettare i polpastrelli sul bracciolo del divano.
«Oh, no! Credimi. Ho bussato alla porta giusta. Non ti ho mai chiesto di pubblicare il mio manoscritto. Volevo solo che le mie parole arrivassero a te.»
«Oh, questa poi!»
«Ascoltami. Vediamoci domani a casa mia. Tu sei colui che darà corpo a ciò che ho scritto.»
«Hai sbagliato un’altra volta. Addio!»
«Aspetta! Fidati di me.»
«Fidarmi? Mi sono fidato anche troppo degli altri. Adesso scusami, ma ho molto da fare.»
Jonas spense il cellulare e andò a gettarsi sul letto. Non riuscì a chiudere occhio. Continuavano a passargli davanti, come incubi, le facce sogghignanti dei colleghi, il volto angosciato di Stella, quello deluso e arrabbiato di suo padre… e sentiva l’acido salirgli dallo stomaco.