Romanzo
Alle due del mattino di un freddo giorno di novembre Vittorio viene colpito da un dolore al petto che lo lascia senza fiato. In quei lunghi attimi, durante i quali pensa di stare per morire, l’uomo rivive l’intera sua vita e attraversa un tunnel alla fine del quale ode una voce che gli dice che deve tornare indietro perché dovrà fare una cosa molto importante. Trascorso il weekend, l’uomo vive una seconda esperienza sconvolgente: gli appare un disco volante di grandi dimensioni che comunica con lui telepaticamente. Sotto shock per l’accaduto si ferma nel primo bar che incontra lungo la strada e qui inizia a dialogare con la barista, una donna misteriosa che gli rivelerà quelle che pensa siano le origini della razza umana e il suo sconvolgente passato. Sorpresi da una tempesta di neve che impedirà loro di lasciare il locale, nel corso della notte la donna informerà Vittorio di essere stato scelto dagli extraterrestri per compiere una missione alla quale non può sottrarsi e che riguarda tutti noi e il nostro possibile futuro.
1
Arriva all’improvviso. Non annunciato. E assomiglia a una scarica elettrica, anche se è diverso dall’elettricità. Non so dire se sia più o meno forte di una scarica elettrica, ma diverso, questo sì. E ci si domanda: “Cosa mi sta succedendo?”.
Sto parlando del dolore.
L’uomo lo provò alle due e tredici minuti di un freddo mattino d’autunno, mentre stava seduto al computer, al tavolo della cucina. Portò entrambe le mani all’altezza del cuore e le premette sul torace. Il dolore era lancinante, da togliergli il respiro.
“Ci siamo” pensò, “un infarto. Capita a un sacco di gente. Stavolta sta capitando a me.”
Al di là della finestra una mezza luna rischiarava la parte del cielo a ovest, infinite stelle punteggiavano l’altra metà a oriente, vivide, così splendenti da poterle toccare con un dito, così remote da smarrirsi nelle tenebre.
Era la fine di novembre. L’uomo considerò che fra alcune ore sarebbe stata l’alba di sabato, e che solo tre giorni prima un caldo sole aveva irrorato la campagna di una bella luce, e la temperatura era così mite da far pensare che si fosse a primavera, ma durante la notte il vento aveva preso a fischiare al di là delle finestre, a scuoterle con cattiveria. E l’aria, il mattino dopo, era ghiaccio che congelava le dita e tagliava la faccia, e sapevi che l’inverno era arrivato per restare almeno fino alla fine di aprile dell’anno a venire, perché gli inverni, tra quelle colline così lontane dal mare, erano lunghi e bui e rigidi.
L’uomo aprì la finestra e inspirò l’aria gelida. I rami dell’albero di fico e di quello di cachi gli sembrarono ancora più scheletrici.
Si chiese cosa avrebbe dovuto fare.
Richiuse la finestra, sollevò il braccio sinistro e lo abbassò, poi lo sollevò ancora e lo abbassò una seconda volta. Compì quel movimento tre, quattro, cinque volte. Si sentiva bene, di nuovo bene, come se non fosse successo niente. Si risedette al tavolo e riprese a lavorare al computer. Qualcosa lo colpì tra la schiena e il torace, e fu come se un coltello lo avesse trafitto e si fosse conficcato nelle sue carni, e gli parve che il braccio sinistro non facesse più parte di lui. L’uomo strinse forte il braccio con la mano destra ed emise un lamento. Non era vero che tutto era tornato normale. Questa considerazione fu sufficiente a farlo alzare dalla sedia una volta per tutte e a farlo andare in camera da letto, dove si tolse il pigiama e iniziò a vestirsi.
– Ok, si va all’ospedale – disse.
Pensò che se avesse chiamato l’ambulanza ci sarebbero voluti almeno quaranta minuti perché venissero a prenderlo dal più vicino ospedale e altrettanti per arrivarci. Troppi. Se davvero stava per avere un infarto non ce l’avrebbe mai fatta a salvare la pelle. Sarebbe andato all’ospedale in auto per conto suo. Era rischioso ma sempre più sicuro che arrivarci morto in ambulanza.
Si allacciò le scarpe e andò in bagno, si guardò allo specchio e si pettinò. In corridoio, si mise il piumino nero, si avvolse il collo con la sciarpa scozzese, prese il Borsalino dall’appendiabiti e se lo calcò bene in testa, si guardò un’ultima volta allo specchio che stava appeso presso la porta d’ingresso.
“Può andare” pensò, “se devo morire voglio presentarmi dall’altra parte vestito come si deve.”
Uscì di casa, salì veloce in auto e accese il motore. Lanciò un’ultima occhiata alla finestra della cucina e si accorse di avere lasciato la luce accesa.
La spia sul cruscotto gli segnalò che c’era pericolo di ghiaccio sulla strada. Rallentò in prossimità della prima curva, accelerò lungo il rettilineo, superò il ponte e attraversò il paese. Per le strade non c’era anima viva. Rallentò una seconda volta a una ventina di metri dall’autovelox, si lasciò alle spalle la fontana della piazza con le statue dei quattro pesci che buttavano acqua dalla bocca, e finalmente fu fuori dal paese.
Ai lati della strada le due lunghe file di platani oscurarono la pallida luce della mezza luna. L’uomo accese gli abbaglianti e diede più gas, l’auto prese maggior velocità.
Brulli campi di terra scura e stoppie si arrampicavano sul declivio a sinistra, l’esigua pianura solcata dal fiume si allungava dall’altra parte della strada. Superò il secondo ponte e scalò di marcia in prossimità della prima di molte curve che l’avrebbero portato al prossimo centro abitato.
Conosceva quella strada a memoria, avrebbe potuto guidare a occhi chiusi, ma quella notte fece quel tragitto con uno spirito diverso, pensando che poteva essere l’ultima volta che vedeva quegli alberi, quelle colline, il distributore di benzina, l’emporio di abbigliamento, la chiesetta diroccata, tutto quello che aveva sempre dato per scontato.
“Hai paura di morire?” si domandò.
“No. Non ho paura di morire.”
Non mentiva. Davvero si sentiva sereno. Aveva vissuto abbastanza per sapere di avere fatto non tutto quello che voleva ma quello che poteva, cose buone e cose meno buone, ma mai il male con l’intenzione di farlo.
Rifletté che non aveva né rimpianti né rimorsi, che non aveva più una moglie, e che nessun volto di donna lo tormentava la notte né gli faceva sognare un futuro che potesse dirsi migliore dei giorni tutti uguali che stava vivendo da troppo tempo.
Era un uomo solo, e alla fine andava bene così.
Il braccio sinistro riprese a dolergli dalla spalla alla mano. Un attimo dopo fu come se qualcuno gli avesse sferrato nel torace un pugno con tutte le sue forze, e l’uomo emise un gemito strozzato e digrignò i denti.
“Ci siamo” pensò aguzzando la vista in cerca di uno spiazzo ove fermarsi con l’auto.
A un centinaio di metri intravide l’area della fermata del bus della scuola. Accostò a destra, spense il motore, e stette in attesa che il dolore urlasse nelle vene con tutta la sua voce.
“Ancora un pugno come questo e è finita” pensò tra sé e sé, “ma non me ne importerebbe un accidente, perché oggi sarebbe un buon giorno per andarsene da qui, per lasciare questo corpo e ritornare ancora una volta a casa. L’ho pregata tante volte la morte, finalmente è arrivata. Il fatto è che pensi che avrai tempo per prepararti a morire ma le cose non stanno così. La morte arriva sempre quando meno te l’aspetti, e tu non decidi un bel niente, perché non si scende a patti con lei, non si sottoscrivono contratti di nessun tipo con lei. Così sia, Padre. Così sia, madre.”
Pensò a sua madre che se n’era andata dieci anni prima, e come se lei fosse lì in quel momento in carne e ossa, rivide il suo volto, il suo sorriso amorevole, le sue mani. Sua madre lo stava aspettando sulla soglia tra questo mondo e l’altro, quello fatto d’alba, di pienezza, dell’essenza di tutte le cose. Poi fu la volta della visione del suo primo giorno di scuola, del cortile pieno di bambini vestiti come lui di un grembiule nero e con un fiocco rosso annodato attorno al colletto bianco. Gli tremavano le gambe dalla paura quella mattina e si guardava in giro in cerca di un volto amico.
Come un vecchio calendario dimenticato nel fondo di un cassetto, a quel punto fu il ricordo della sua prima comunione a balzargli incontro, e quello del primo bacio che aveva dato a una ragazza e del sapore di miele che gli era restato in bocca e che non aveva mai dimenticato, e poi del pomeriggio pieno di luce in cui si laureò e festeggiò con lo spumante e una bella fetta di torta di mele fatta in casa. Sorridevano sua madre e suo padre e nei loro occhi vide lacrime di gioia. Come un lampo che squarcia la notte fu quindi la memoria del suo primo giorno di lavoro, della chiesina di campagna la mattina del matrimonio, del sorriso radioso di sua moglie, della marcia nuziale, dei sorrisi degli invitati e del loro battimani fuori dalla chiesa, del…
La ruota del passato smise improvvisamente di girare e l’uomo seppe che stava attraversando un tunnel buio al di là del quale intravedeva una luce. Come se avesse spiccato il volo si trovò senza accorgersene alla fine di quel tunnel e fu colmato da quella luce calda più del sole ma che non ardeva, e palpitante come un cuore, e provò una sensazione di completezza come mai aveva provato prima di allora. Quella luce gli trasmetteva pace, un amore che lo commuoveva per quanto era immenso e senza limiti. Non udiva alcun suono ma era certo che una musica dolce impregnasse tutto di quel luogo che non aveva prospettiva, non aveva pareti, soffitto, pavimento, che si trovava in un punto e ovunque, e anche lui era in un punto e ovunque.
Qualcuno gli si fece incontro.
Quella presenza, che non aveva né corpo né volto, disse:
– Ah… sei qui? Ma non è ancora la tua ora. Torna indietro. Devi ancora fare delle cose. Una, molto importante, proprio adesso. Ci rivedremo più avanti nel tempo, più avanti. –
Fu come se un cielo di cristallo esplodesse, quando la soglia tra questo mondo e quello fatto d’alba lo ricacciò da dove era salito a posare gli occhi al di là delle stelle.
L’uomo si ritrovò nell’auto in mezzo alle tenebre della notte, estraneo a ogni cosa, anche a se stesso, al suo stesso respiro.
Si guardò le mani che premevano contro il suo petto.
Il primo pensiero che gli venne alla mente fu che il luogo ove era appena stato aveva un profumo che non si poteva definire con nessuna parola, un profumo che non era di fiori, anche se attingeva ai fiori, né di cose morte, anche se era certo che quel luogo si trovasse dove ognuno andava dopo essere morto.
E quel profumo, che era l’aldilà, ancora lo sentì nel naso e nella mente, e non l’avrebbe più dimenticato.
“Dunque, è quello l’altro mondo, il Paradiso, i Campi Elisi, i Felici Territori di Caccia dove non si patisce la fame, la sete, il freddo, le malattie, il dolore per la perdita dei tuoi cari, la vecchiaia. L’ho appena intravisto e già mi manca”, rifletté l’uomo con tristezza.
L’orologio sul cruscotto segnava le due e quarantacinque. Abbassò il finestrino dell’auto e un soffio d’aria gelida accarezzò il suo volto. Era l’aria del mondo che conosceva, fatta di terra, di erba, di acqua, di legno.
“Perché quello spirito mi ha rimandato qui?” si domandò. “Stavo così bene, ero così felice lassù. Che ci faccio ancora una volta qui?”
Accese il motore, rimise l’auto in carreggiata e riprese il suo viaggio verso l’ospedale.
Verso le tre e mezza varcò la soglia del pronto soccorso, e a una donna che indossava un camice bianco disse che pensava di avere un infarto.
Fu fatto sdraiare su un lettino di metallo con le ruote, un infermiere gli tirò su la manica della camicia, gli mise un ago nella vena del braccio e gli estrasse del sangue. Poi fu collegato a una macchina con dei fili, e gli furono chieste le generalità e l’indirizzo, quindi il medico gli domandò:
– Ha mai avuto seri problemi di salute in passato? –
– No. –
– È la prima volta che le capita di avere un dolore del genere al cuore? –
– Sì. –
– In questo momento sente molto dolore? –
– No. In questo momento non sento alcun dolore. –
– Ora le facciamo tutti gli esami. Ha qualcuno a cui desidera telefonare? –
– Non ho nessuno che mi aspetti. –
– Non si agiti, stia tranquillo, tutto andrà bene. –
Il letto fu spinto in una grande stanza e lasciato accanto ad altri letti sui quali giacevano altre persone che attendevano di sapere cosa stesse riservando loro la vita.
Doveva solo avere pazienza, imparare come sempre ad avere pazienza. Non gli importava cosa gli avrebbero detto i medici, perché qualunque fosse la verità non aveva paura, né mai più l’avrebbe avuta fino all’ultimo dei suoi giorni. Seppe anche che da quel momento il tempo avrebbe preso a scorrere in maniera diversa, e che ogni cosa avrebbe avuto un significato nuovo, che la sua attenzione già stava cominciando a essere catturata da cose alle quali non aveva mai dato importanza prima d’allora, e che altre che aveva sempre considerato di massima importanza ora gli parevano di nessun valore. Il suo mondo era stato violentato e rovesciato, e lui stava nascendo per la seconda volta in un mondo che si presentava ai suoi occhi completamente differente da quello che conosceva prima.
Ritornando con la mente a quanto gli era accaduto guardò ai suoi fallimenti e alle sue mancanze non più soltanto con delusione e sensi di colpa, ma anche con accettazione e comprensione verso se stesso.
Era un uomo, dopotutto, solo un uomo, ed era così difficile esserlo, dal primo all’ultimo dei respiri, dal primo all’ultimo giorno che la vita concede. E a quel pensiero gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Alle sei di mattina non era ancora venuto nessuno a dirgli qualcosa, né a lui né agli altri che giacevano accanto a lui su quei letti di metallo. Così si alzò, si ravviò i capelli, e uscì dalla stanza. Scorse le scale in fondo al corridoio, scese al piano di sotto. Il bar stava a sinistra, in fondo a un altro corridoio. L’aroma invitante del caffè giunse fino a lui. Alcuni medici e infermieri stavano facendo colazione. Ordinò un cappuccino e una brioche. Mangiò la brioche senza fretta e bevve il cappuccino sorseggiandolo lentamente, assaporando fino in fondo la bontà di quei semplici doni, la bellezza di ogni secondo di quel giorno irripetibile.