1972 – 2020: DALLA VIA ALLE INDIE
AL DRAMMA DEL CORONAVIRUS
Il pensiero di uno scrittore è inseparabile dalla sua esperienza di vita, la quale può essere a sua volta espressione del solo vissuto privatistico individuale o specchio della sua epoca storica. Il solo vero scrittore è colui nel quale queste due dinamiche diventano una, facendo della propria vita la sintesi della sua epoca, a testimonianza per le generazioni future, come da sempre è avvenuto nella storia della letteratura e come rischia di non essere più nell’epoca attuale.
Tutto il dopoguerra, pur nelle sue complessità, può essere sintetizzato e racchiuso fra i gloriosi sogni rivoluzionari degli anni Sessanta, proiettati fra l’altro verso la conquista dello Spazio come apertura verso la totalità dell’universo, e l’attuale drammaticità della prima vera pandemia planetaria, che sarà forse un giorno ricordata come il dolore più grande conosciuto dal genere umano.
Il senso di questa opera è di descrivere la storia del mondo, ed in essa la vita stessa dell’autore, in quanto uno fra i pochi ad essere testimone perfettamente cosciente di entrambi questi periodi e fra queste due opposte estremità, di gloria e di dolore.
La Via delle Indie – 1972
I – L’addio all’Europa
II – Le porte dell’Oriente
III – La Persia
IV – L’Afghanistan ed il sogno de “Le mille e una notte”
V – Herat
VI – Verso Kabul
VII – Kabul, la capitale dell’Afghanistan
VIII – L’impatto con il Pakistan
IX – Il Kashmir pakistano
X – L’inferno di Lahore
XI – Nella terra dei saggi
XII – Dharamsala
XIII – Nel cuore dell’India
XIV – Il sentiero di Kathmandu
XV – La mitica Kathmandu dei paradisi artificiali
XVI – Verso i confini del Tibet
XVII – Gli ultimi giorni a Kathmandu
XVIII – L’addio al Nepal
XIX – Benares, la città santa dell’Induismo
XX – La città del Taj Mahal
XXI – La terra dei Santi
XXII – Il definitivo ritorno
Da allora ad oggi
Il Poema del Coronavirus – 2020
La decoronizzazione dell’Occidente
Coronavirus
La speranza ferita
Il sangue dei poeti
Mai più
La generazione dei crisantemi
I suoni dell’aria
La tipologia di morte
Il pianeta infetto
Covid-19
L’ultimo possibile giorno
Il più triste dei venerdì santi da Cristo in poi
La Pasqua dei sepolcri
I
L’addio all’Europa
Quella notte di fine giugno, prima di lasciare l’Europa, io percepivo il silenzio consolare la stanchezza dell’uomo e fremere sulle sue muraglie – edere e foschia attorno a noi. Stavo con un gruppo di amici e fra questi vi erano coloro che più di ogni altro avevano seguito le tappe della mia evoluzione, compiendo con me le medesime scelte e lottando per un medesimo fine. Giovanni Summonte ricordava i nostri primi viaggi per l’Europa, sulla strada per Amsterdam, che rappresentava allora la più vicina meta dei nostri sogni. Intanto, la brace sulla quale avevamo cucinato delle uova nel parco di Novate si era trasformata in una voce. E noi capivamo il suo palpito di angeliche comunicazioni.
Non avevo voglia di dormire quella notte. Il giorno seguente sarei partito per le Indie e non valeva la pena riposarsi. Volevo andarmene con la mia condizione di esule, vivente in questo mondo, con cui nulla avevo da condividere, se non il desiderio di distruggerne le antiche catene, come ai popoli oppressi della Terra. Solo il fumo delle industrie con quel suo interminabile soffio alla gola ci impediva di captare la presenza di esseri di altri mondi. Toccai quella notte gli ultimi ricordi della terra in cui nacqui. I sogni degli amici erano proiettati nel mio sguardo. Ed io non avevo che diciotto anni appena compiuti.
Il mattino seguente partii per le Indie. Angelo e Valentino mi accompagnarono in macchina fino all’autostrada per Venezia. Luca stava arrivando in quel mentre. Suo padre ci accompagnò al casello autostradale di Agrate. Ci disse che non avremmo dovuto sentire quel viaggio come un dovere, di non demoralizzarci qualora non fossimo riusciti a giungere sino in India e di tornare pure indietro se le difficoltà fossero state eccessive. Ma la nostra mente, guardando per l’ultima volta l’ambiente di sempre, già era proiettata lontano, nel fascino di terre e paesi incantati. Lasciavamo una civiltà che non potevamo accettare e che non ci aveva accettato.
Così iniziava il nostro viaggio: io e Luca, due compagni di liceo, con due diverse esperienze, proiettati in due diversi destini, che allora non potevamo sapere. Un impiegato ci diede un passaggio fino a Bergamo. Poi fino a Verona un giovane sui venticinque anni, gentile e depresso. Diceva di sentirsi ormai sorpassato. “Tu hai rifiutato un certo prototipo di vita, noi stiamo costruendo una nuova ed unica idea di uomo” rispondemmo noi con una punta di retorica. Allegro e spensierato era invece il camionista che ci diede un passaggio fino a Padova. Ci raccontò di sua nipote rimasta in Giordania e delle palme sotto le stelle. Un ragazzo ed una ragazza ci portarono fino a Mestre. La ragazza diceva di conoscere un’amica trasferitasi a vivere in Afghanistan. Lasciammo il Veneto ed arrivammo fino a Cormons in Friuli con un signore camionista. Era un tipo tranquillo e pieno di fiducia, malgrado l’età già avanzata. Ci disse di cercare, finché si poteva, di aiutare gli altri e di farli felici. Sull’autostrada, parcheggiati presso un distributore, trovammo due camion diretti a Teheran. Non ci pareva vero poter raggiungere così in fretta ed in un solo colpo il Medio Oriente. Corremmo subito dagli autisti con il massimo entusiasmo per chiedere loro un passaggio, ma ci risposero che non era possibile per via delle cabine troppo strette. Ci convincemmo allora della necessità di avere più pazienza e di gioire anche di un passaggio di soli pochi chilometri, poiché già il percorrere una distanza pur minima era comunque sempre un correre verso l’Oriente, che tanto amavamo. Un signore anziano ci portò a Gorizia sino alla frontiera con la Jugoslavia. L’attraversammo a piedi. Erano le 2.30 del pomeriggio. Rimanemmo subito nei pressi della dogana a fare autostop e questo per alcune ore, ma invano. Si decise allora di tornare in Italia e di rientrare in Jugoslavia passando per Trieste. Per arrivarvi, occorsero diversi passaggi: la strada era poco frequentata e pareva essere l’unico punto di riferimento nel silenzio di quella natura selvaggia e piena di cinguettii. Da ultimo fu una ragazza a portarci sino alla frontiera. Si recava in Jugoslavia per fare benzina a minor prezzo. Sapendo che Luca aveva del fumo, preferì farci passare la frontiera a piedi, onde evitare problemi con la polizia. La rivedemmo poi dopo e prima di rientrare in Italia domandò a Luca del fumo: in questo caso non aveva più paura dei doganieri. E Luca, generoso, le ne diede un pezzo. Così ci salutammo ed il suo augurio di un felice viaggio ci riempì di entusiasmo, anche per il fatto che già prima, nell’accompagnarci verso la frontiera, la ragazza ci aveva parlato, per sentito dire, dell’India e delle sue bellezze, compiacendosi con noi che eravamo sulla strada per realizzare quello che per lei rimaneva solo un sogno e tale forse sarebbe rimasto ancora per anni.
Cominciò a piovigginare. Immaginavo paesaggi stupendi, al caldo con un sole perenne. E sapevamo che essi erano davanti a noi, sulla lunga strada appena iniziata. Ma già della nostra vita trascorsa fino ad allora non esisteva più nulla. Iniziava a fare freddo. Un ragazzo di Padova ci chiamò e ci offrì un passaggio. Era diretto a Bucarest da una ragazza rumena. Partiva da solo perché all’ultimo i suoi amici avevano rinunciato. Già era il tramonto. Dopo Lubiana ci si fermò a passare la notte. Raggiungemmo un motel in un bosco. Il ragazzo di Padova si prese una stanza ed a noi lasciò la macchina per dormire. La notte era molto umida. Al mattino ci svegliammo di buon’ora e passeggiamo per il bosco. Scendemmo sino ad un fiume vicino ad un castello. I salici si chinavano nell’acqua, che lenta scorreva e dissetava il giorno appena spuntato. Le libellule riempivano l’aria di colori. Io mi divertivo a gettare dei legnetti nell’acqua per vedere le onde concentriche venire a formarsi e perdermi in esse. Il fatto di avere un passaggio assicurato fino a Belgrado ci rendeva tranquilli e ci permetteva di gustare le piccole cose, anche quell’unico panino che mangiammo al bar del motel.
Riprendemmo il viaggio per fermarci poi verso mezzogiorno in un piccolo ristorante all’aperto in un bosco. Il sole filtrava attraverso i rami e pareva trasformarsi in aria. Un panino croccante, un grosso boccale di birra e si ripartì. Era una giornata afosa. Ci fermammo di nuovo poco dopo in un altro motel all’aperto a mangiare del pesce, che ci veniva offerto da questo ragazzo. Eravamo felici. Distesi i sacchi a pelo sul prato all’ombra di una capannina, ci riposammo un attimo. Di tanto in tanto due ragazze slave che lavoravano in quel motel ci riempivano di sorrisi: nulla è più dolce di quando l’attrazione sessuale si manifesta nella purezza di una gioia sincera. La strada attraversava un bosco lungo venti chilometri. Ed il sole non vi entrava, del tanto che gli alberi erano fitti. Qua e là si aprivano delle stradine di campagna in una galleria di foglie con il brulichio della vita. Lunghi filari di pioppi attraverso i quali il paesaggio si confondeva negli occhi. Campi di grano maturi, che si perdevano nella lontananza, circondati da azzurre colline.
Il ragazzo di Padova ci portò oltre Belgrado sino al bivio per Pozarevak e Niš. E qui ci dividemmo. Subito avanti vi era un parcheggio per i camion che facevano lunghi viaggi. Su uno di questi, un autista stava dormendo. Lo svegliammo per chiedergli se fosse diretto a Niš. Ci rispose che ci avrebbe portato, ma fra due ore, dopo essersi riposato un altro poco. Mentre si aspettava ed il sole stava tramontando, ci sedemmo su di un tronco ai margini della strada per fumarci un joint, il primo di questo nostro viaggio. Dei venditori di pesche ci fecero cenno di andare da loro: ne pesarono un chilo e ci fecero segno di prenderle. Noi con i gesti cercavamo di far capire loro che disponevamo di pochi soldi. In effetti io ero partito con meno di 200 dollari, l’equivalente di circa 100.000 lire italiane e Luca con 150.000 lire. Ci risposero sempre con i gesti di prenderle pure. L’unica ragione per cui ci avevano chiamati era di farci felici. E quelle pesche veramente divine erano quanto potevano offrirci. Quel loro dono fu di buon auspicio. Infatti, poco dopo, dei signori scesi da una macchina acquistarono in blocco tutte quante le cassette di pesche. Così se ne andarono a casa salutandoci con reciproca gioia. E noi restammo seduti su quel tronco d’albero ad immaginare l’India, trasferendo in essa la fiaba della felicità – oasi di refrigerio. Ascoltavamo calare la notte ed i canti slavi danzare come folletti. Speravamo in quel passaggio per Niš. Ed intanto la bellezza della luce scompariva davanti a noi. Ci trascinavamo per l’Europa vivendo come immagini di ciò che sarebbe esistito. Stanchi di aspettare il risveglio di quel camionista, ne trovammo infine un altro, che ci assicurò gesticolando di andare sino a Niš. Si fermò invece settanta chilometri dopo, in aperta campagna, dicendo che era un’altra la strada che avrebbe dovuto seguire. Ci diede due bottiglie di birra scura e ci augurò buona fortuna. Ormai eravamo stanchi. Stendemmo i sacchi a pelo in un giardinetto e passammo la notte.
Il mattino seguente si riprese a fare l’autostop. Un libanese ci diede un passaggio ad ottanta chilometri da Niš, cui subito fece seguito un secondo passaggio di cinquanta chilometri. Eravamo in attesa che qualcuno si fermasse quando un tedesco sui trentacinque anni ci chiese se avessimo voluto proseguire il viaggio con lui. Disse di essere diretto in Turchia ad Antalya, ma nelle sue parole traspariva un senso di imprevedibilità. Noi accettammo di buon grado. Si chiamava Andrea. La sua macchina andava molto piano a causa del motore ormai troppo vecchio. D’un tratto si fermò e si mise a bloccare le rare macchine che passavano per chiedere benzina. Un turco gli diede cinque litri di benzina e 100 dinari. Ci spiegò poi che non aveva soldi e che, malgrado ciò, era fermamente intenzionato a proseguire. Presentandosi come un turista di tutto rispetto, come uno momentaneamente sprovvisto di benzina e di valuta locale, riusciva di volta in volta a realizzare il suo scopo. In effetti era vestito in modo elegante, a differenza di noi. Si faceva la barba ogni giorno, si pettinava in modo convenzionale e parlava più lingue. Io e Luca rimanemmo stupiti e gli domandammo perché, non avendo soldi, non viaggiasse come noi con l’autostop. Ci rispose che viaggiare con la propria auto era tutto un altro fascino. Ovviamente, nel chiedere benzina, si fermava sempre in punti distanti di parecchi chilometri dai distributori, onde giustificare la sua richiesta ed il motivo che adduceva. Così proseguimmo nell’incertezza.
Giunti a Niš, puntammo subito su Skopje, per fermarci poi in un piccolo villaggio a bere una birra e ad acquistare pane, salumi e frutta. Grandi erano i prati che si estendevano davanti a noi, le colline si portavano ai piedi dei monti, la strada era un mosaico di indefinite emozioni ed il mio cuore gioiva nel ricamarne il filo d’asfalto. Giunti presso una radura, ci fermammo e, steso un telone sul prato, iniziammo a mangiare. Andrea ci raccontava delle sue avventure in Turchia negli anni passati: le bevute e le fumate, in riva al mare, seguite la sera da grandi baldorie, mentre di giorno il caldo toglieva la fame. Vicino a noi si era fermato un pulmino di ungheresi. Andrea chiese loro se conoscessero un qualche fiume nei paraggi. Risposero che non ne sapevano nulla. In compenso ci invitarono a bere birra con loro a Skopje. Andrea non accettò l’invito e si mise a vagare per la campagna alla ricerca di un fiume, senza spiegarcene il motivo. E non trovandolo, si convinse a ripartire per Skopje.
Ora piovigginava. Ora il caldo era atroce. Ed intanto il sole calava. Le luci di posizione della macchina non funzionavano ed Andrea temeva che la polizia potesse fermarci. I prati si rinfrescavano nei colori della sera. E la mia testa era leggera, mentre le gialle colline erano rivolte verso l’infinito. Giungemmo presso uno stagno e ci fermammo per passare la notte. I rumori erano svaniti nella sera. Io mi voltai verso la campagna indistinta e pensai che a quell’ora la gente si riuniva a tavola per celebrare la fine di un giorno. Quando tu vuoi esplorare, è tutto in te, con gli occhi chiusi nella contemplazione di angeli verdi e neri come l’ebano di foreste dove l’uomo stese il manto della sua storia, mentre bianchi papiri di polvere ti portano nella voce del vento. […]