Un viaggio iniziatico lungo “La via dell’Angelo”, la ley line di San Michele, la linea sacra più importante del mondo
Giuseppe, un giovane mugnaio dell’Abruzzo, desidera diventare un cantante. Un giorno, in sogno, una misteriosa voce gli indica di mettersi sulle tracce di un antico manoscritto. Il ragazzo indugia, ma alla fine decide di partire. Lascia la sua terra per iniziare il viaggio che lo porterà all’incontro con un enigmatico frate cistercense, il quale gli cambierà la percezione della vita e gli donerà un manoscritto custodito nella cattedrale di Chartres… Inizia così la ricerca del Santo Sepolcro, menzionato nel libro, in cui si nasconde una grande ricchezza.
Dopo aver attraversato mezza Europa, Africa e Medioriente raggiunge la Siria, dove l’arciere Orion, maestro dell’Ordine dell’Arco, un antico ordine legato alla costellazione di Orione, lo attende da tempo. Dopo essere diventato egli stesso un arciere, Giuseppe raggiunge infine Gerusalemme dove, inaspettatamente, svela l’enigma sulla meta finale…
L’insegnamento della storia di Giuseppe è di avere fede nei propri sogni, di saperli interpretare, facendo attenzione a quel particolare linguaggio velato, fatto di segni, simboli e di incontri, che lungo il cammino dell’esistenza ci portano alla nostra autentica realizzazione. La sua vicenda ci accompagna alla conquista di un tesoro inestimabile, l’eredità di Celestino, che con il suo messaggio di pace e riconciliazione, la Perdonanza Celestiniana, ci conduce verso la tradizione spirituale della città dell’Aquila, proclamata dal 12 dicembre 2019 Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO.
L’Arciere – L’Ordine dell’Arco è una favola iniziatica che, in una allegoria moderna, racconta il viaggio dei viaggi che ogni uomo dovrebbe intraprendere: il viaggio all’interno di se stesso.
«La vita in fondo non è che una freccia, lanciata da un arco più grande di noi…»
I – L’origine di tutto
II – La chiamata del Destino
III – Il viaggio verso Milano
IV – Verso la Val di Susa
V – Il paese dei canti e la Sacra di San Michele
VI – Paris, la Ville Lumière
VII – Chartres
VIII – Le Livre Secret de la Grand Mère
IX – Le Mont Saint-Michel
X – Verso l’Inghilterra misteriosa
XI – Roma, il cammino di Amor
XII – Il sogno di Santiago e il cammino de Compostela
XIII – Santiago-Barcellona
XIV – La nave per Napoli
XV – L’isola di Capri e la Sfinge
XVI – In viaggio verso la Puglia
XVII – Castel del Monte
XVIII – Il viaggio in Egitto
XIX – Azhar e le piramidi di Giza
XX – Al Shaulah, il Pungiglione dello Scorpione
XXI – L’incontro con l’Eremita
XXII – Il Tredicesimo Segno
XXIII – Le terre di Punt e il cammino della Madre
XXIV – L’incontro con la Regina del Sud
XXV – Il Principe Pareher Wenemef, l’Ultimo Dono e la Scala del Paradiso
XXVI – L’Arciere
XXVII – Il cammino verso Gerusalemme
XXVIII – La storia di Hiram
XXIX – La storia del Profeta Elia e del Monte Carmelo
XXX – L’asse Messianico
XXXI – Gerusalemme, lo Zohar, le Rose di Gerico e il Santo Sepolcro
XXXII – La Rivelazione
XXXIII – La Via del Ritorno
Ho scritto questo libro di notte, illuminato dalla mia voce interiore che nel silenzio mi dettava, mentre ripercorrevo le tante coincidenze della mia vita, i segni, le tracce miracolose della tradizione unica che, strada facendo, ho imparato ad interpretare. Quando ho accolto quest’idea di scrivere un romanzo, per così dire “iniziatico”, per evitare di scrivere delle banalità, ho preferito attendere, far sedimentare sempre tutto ciò che scrivevo, per rileggerlo successivamente. Ci ho lavorato per ben tredici anni, un tempo sufficiente per evolvermi, parallelamente al libro, attraverso la ricerca e le esperienze personali che ho vissuto e da cui ho tratto ispirazione.
Se lo avessi pubblicato prima e scritto in meno tempo, al libro sarebbero mancate delle parti. Ho saputo attendere pazientemente per raccogliere conoscenze che, come frutti maturi, mi pendevano davanti agli occhi ogni volta che superavo una prova. Così, con questi frammenti, ho certosinamente ricomposto il mosaico di una storia più grande di me, che mi ha portato ad una crescita e ad un’evoluzione personale che non avrei mai immaginato. Ho scritto con la consapevolezza dell’uomo che sono oggi, ma lasciando parlare l’intuito, l’ingenuità e l’entusiasmo di quegli occhi, intrisi di speranza, del bambino e del ragazzo che sono stato. Ci ho messo dentro quasi tutte le pieghe del mio essere e tutte le aspettative di una giovane vita; il dolore del distacco dalla propria terra e dagli affetti, gli errori e le cadute, la difficoltà dei cambiamenti, la stanchezza del viandante che cammina per il mondo in cerca di se stesso. Questo è un romanzo dove la magia degli incontri e delle sincronicità, la morte di sé, la rinascita e la gioia del ritorno a casa, ma soprattutto l’amore per la verità, sono sentimenti protagonisti. Seguendo una speciale vocazione alla percezione, ho rispolverato storie dimenticate per ridargli nuovo vigore. Ho cercato di raccogliere in un vaso i preziosi consigli della parte più alta e nobile di me e di riversarla nel mondo in forma di scrittura. Il romanzo non è una mia autobiografia, perché non sarebbero bastate queste pagine per descrivere e raccontare una vita. Tutt’al più, scrivere questo libro per me è stato come esplorarmi e disfarmi di parti della mia personalità, e spero che qualcuno abbia la volontà di correre il rischio di leggerlo. È un tentativo per stimolare la riscoperta di quell’essenza divina nascosta in ognuno di noi. Mi auguro che ogni lettore possa ritrovare in questo romanzo il tempo e la voglia di ascoltare i propri pensieri più reconditi, perché la conoscenza possiamo anche apprenderla dagli altri e dai libri, ma la saggezza, la “sapienza sapienziale” di cui parlavano gli antichi, è una fonte d’acqua pura che sgorga dal nostro cuore e possiamo ricercarla soltanto dentro noi stessi.
L’Arciere è la storia di un eroe semplice, che compie una grande impresa, è l’avventura di un sognatore moderno, un cercatore di verità, che trova in un sogno e in un antico manoscritto la ragione del suo vivere e, dopo molte peripezie, giunge ad una grande rivelazione, prezioso tesoro che è la sua stessa esistenza, la sua stessa origine. Ho raccontato la vicenda umana di un giovane artista che ha davanti a sé delle prove importanti da affrontare, e che si muove lungo i sentieri impervi del mondo, con la follia di un viandante e la forza di un guerriero indomito, per apprendere i misteri insondabili dell’umanità.
Ho lavorato su questo libro con l’umiltà di un principiante, non sapendo neppure se un giorno lo avrei terminato e pubblicato. Di certo è stato scritto con l’inchiostro rosso delle mie stesse ferite, su fogli di carta bianchi, diventati pagine indelebili della mia vita. Giorno dopo giorno, mi convinco sempre di più che la mia anima abbia scelto una destinazione prima di tornare sulla Terra, ed io la mia vita ed un percorso fra tanti, per perseguire quel fine ultimo di ritornare a casa, dopo un lungo viaggio. Ogni nostro desiderio, espresso con animo sincero, non basta per arrivare a destinazione, dobbiamo rendere conscio l’inconscio, renderci integri, per mettere in moto tutto l’universo, affinché si concretizzino…
Voi non potete immaginare né sapere da quale parte arriverà la vostra vera realizzazione, il potere è nella creazione delle nostre visioni ma in accordo con il nostro contratto di vita, stipulato prima della nostra nascita. Il vero potere è in noi, nella volontà di scegliere cosa diventare, nella coerenza dell’impegno e nel sentire del nostro Dio interiore… La verità è potente, è come una freccia scagliata con forza da un arco verso il cielo, potente come un’aquila che vive nel cuore dell’arciere.
L’Autore
“Risvegliati, o anima splendente, dal sonno dell’ebbrezza in cui sei caduta.”
(da un testo manicheo)
I – L’ORIGINE DI TUTTO
“Questa è la storia di un ragazzo divenuto uomo, questa è la storia di un arciere, di un popolo di saggi e di giusti, del loro spirito riservato, dignitoso e volitivo. Questa è la storia di Celestino, di una città e dei paesi di pietra arroccati che s’inerpicano verso le montagne, di quelle case dai tetti rossi e scomposti che contrastano con il cielo ruvido e livido. Questa è una storia che si compie fra gente semplice, dall’indole indomita, onesta e schietta così come la loro terra, questo Abruzzo forte e gentile.”
Germano Di Mattia
Tanto tempo fa, i luoghi che furono teatro della prima parte della sua vita e che ogni tanto rivisitava con l’immaginazione, erano state terre di maghi, di guerrieri e di dee. Da quei paesi di pietra circondati da montagne, più di un abitante si era ritrovato spesso a sognare di partire per terre lontane, forse anche per scacciare quella innata malinconia che era rimasta impressa negli occhi e nel cuore della gente, da quando il lago non c’era più. Un lago prosciugato, la cui memoria era stata preservata dal racconto di storie e di leggende che si tramandavano di padre in figlio.
Ora, se dai confini delle antiche rive dell’ex lago Fucino, percorrendo la strada, ci si dirige verso nord, prima di raggiungere le catene montuose ed i paesi ripuari, tra le pendici delle colline e la via Tiburtina Valeria, si può vedere ancora quel che resta di un villaggio e di un vecchio mulino, piegato dalle intemperie e dagli anni. Il mulino sorge sulle rovine d’una precedente costruzione, ma non macina più. Gira da solo le pale e la mola del tempo, spargendo la polvere dei ricordi tutt’intorno. Quattro gatti di diverso colore si divertono sul tetto e sulle scale di legno, correndo qua e là, sopra e sotto, miagolando canzoni nel salire e narrando la favola di un’epoca che non c’è più nello scendere. In questo posto così insolito, si dice abbia vissuto la sua infanzia ed adolescenza il più grande e intrepido viandante. La sua storia, narrata in questo libro, venne scritta molto tempo prima della successiva fama, prima dei tempi in cui vennero conosciute le sue opere, quando ancora non aveva ricevuto il dono della rivelazione, ma gli era abbastanza vicino. Egli ritenne opportuno aspettare la sua pubblicazione e mantenersi in incognito, osservando le regole del segreto: sapere, potere, osare, tacere.
Da bambino girava spesso con pantaloni alla zuava in velluto verde o azzurro ed una camicetta bianca, molti lo ricordavano così, come in un fotogramma sbiadito, ma ben impresso e vivo nella loro mente. Aveva appena quattro anni quando, appena tornato dal Sudamerica con la sua famiglia, da subito era diventato la mascotte di quelle contrade, sentendosi pur sempre uno straniero in patria. In paese, si erano abituati alla sua lingua spagnola e al suo nuovo nome. Perché pur chiamandosi dalla nascita Giuseppe D’Arcadia, ormai tutti lo chiamavano José.
«Ricordo tutto come fosse ieri, quando mio padre, dopo il viaggio in nave fino a Napoli, entrò in casa ed aprì il grande baule di latta, dove c’erano tutti i miei giocattoli» scrisse su un quaderno appena fu in grado di farlo…
«Aveva il passo pesante e stanco, come quello di chi arriva da un lungo viaggio. Mia madre lo accolse in lacrime, aveva rinunciato a tutto, purché noi fossimo felici, anche quel giorno si era alzata all’alba per preparare le pietanze e soddisfare il nostro appetito. Di mio padre ricordo le mani ruvide, con le quali accarezzò me ed i miei fratelli, e che ci attraversarono le guance per arrivare in silenzio fino al cuore.»
In Abruzzo, oltre a presenziare a tutti i funerali ed a tutti i matrimoni per movimentarsi le giornate, per José non c’era molto altro da fare. Eppure per entrare meglio nel suo mondo e comprendere bene la sua storia, è importante sapere qualche dettaglio delle terre dove crebbe, in quel villaggio di case basse e di pietra, dove nei vicoli riecheggiavano ancora le melodie delle canzoni che Ciccillo il fruttivendolo diffondeva dall’altoparlante montato sulla sua ape azzurra. Sembrava di vederlo ancora, con quelle cassette di frutta e verdura, così sparuto tra quelle vecchie strade di montagna, mentre fischiava e canticchiava, con la sua voce rauca, quella vecchia canzone sull’arca di Noè. Il suo canto era tremulo come il suono di un organo, e ancora oggi la sua eco risuona come una campana negli orecchi di chi serba questo ricordo.
Con l’arrivo dell’estate, come d’abitudine, José riprendeva le sue attività da sognatore. Seduto sulle sue gambe, rimaneva per ore a fissare la campagna infinita, dove la strada bianca senza asfalto si perdeva tra i campi di grano fino all’orizzonte, come un lungo serpente polveroso. A volte rimaneva a fissare il cielo per seguire con gli occhi la traiettoria di un aereo, allora arrivava un pensiero e d’istinto, con la sua mano destra, controllava se il distintivo a spilla con le ali d’argento e la stella azzurra, regalo della hostess della compagnia aerea con la quale aveva fatto ritorno in Italia, era sempre al suo posto, appuntata e ferma sul suo taschino. Poi si spostava verso il ciglio della strada, dove crescevano i soffioni. Si chinava per raccoglierne qualcuno, ricordandosi sempre delle parole che la nipote francese della sua vicina di casa gli aveva detto: «Voir croitre le pissenlit par la racine.» Le pissenlit, il piscialletto, non era altro che il soffione del tarassaco. In Francia avevano strani modi di dire per indicare che una persona era morta! Era questo il significato di “Veder crescere il piscialletto dalla radice”… Per José invece quei fiori rappresentavano la vita, erano un modo per esprimere i propri desideri, nella speranza che potessero avverarsi, perché tanto più lontano arrivavano quei semi, tanto più i suoi sogni potevano diventare realtà. Lunghe code bianche volavano sopra il mulino ed il villaggio, come frecce che osservavano dall’alto la sua tenera e giovane vita e quel paese così piccolo e insignificante. Risalivano nel cielo spinte dal vento, disegnando un ordito, una trama che nessuno sapeva interpretare, neppure il vento. Ed ogni volta i soffioni, leggeri come piume bianche, pur sorvolando i paesi, i boschi e le città, non destavano attenzione, nessuno sembrò mai accorgersene, perché ormai nessuno alzava più gli occhi verso il cielo. Solo José, nella sua solitudine, riusciva a distaccarsi, a mettere da parte la sua paura e a lasciarsi andare al flusso della vita, per librare leggero nel mondo dei sogni. Allora i soffioni, simili a dei paracaduti, volavano nell’aria, trasportandolo in una terra nuova, da dove ora ammirava un cielo terso e un arcobaleno. Per anni questo divenne il suo gioco preferito, lasciarsi trasportare dal vento, senza timore, fino a quando crebbe selvatico e robusto, alto come i suoi monti e non divenne un giovane permaloso ed impavido, fino a quel giorno in cui si sentì pronto per andare incontro al suo destino, intraprendere un viaggio e sperimentare nuove avventure e una nuova vita.
Ad ovest del vecchio mulino, il terreno scendeva fino a un ruscello le cui acque, un tempo, alimentavano il lago insieme al fiume Giovenco. Prima del prosciugamento, nel Fucino si gettavano molti torrenti, pressoché secchi durante l’estate, tutti tranne uno, il Giovenco appunto, che invece ha sempre l’acqua. Il fiume Giovenco non è altro che il Pitonio, il serpente sacro di acqua che nutriva il lago Fucino, l’immissario nominato da Plinio. La leggenda del fiume serpente Pitonio si fondeva perfettamente con un’altra storia della mitologia greca, quella di Pitone figlio di Gea, generato dal fango dopo il diluvio universale. Il drago-serpente Pitone era custode di una grotta e morì per mano di Apollo, che con l’arco teso gli scagliò addosso così tante frecce da finirlo. Quella caverna divenne l’Oracolo di Delfi, il santuario più famoso dei tempi antichi, da dove la Pizia, inebriata dai vapori che esalavano dalla terra, pronunciava le sue profezie. Il tempio dell’Oracolo di Delfi recava un’iscrizione in greco sul portale: Gnōthi seautón. “Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli dèi”. Colui che non conosce se stesso non potrà mai fare ciò che davvero vuole! Quell’iscrizione enigmatica aveva fatto sognare tante generazioni, incuriosendo dalla notte dei tempi ogni giovane vita, con l’anima di un esploratore del mistero. Puntualmente, ogni notte, quell’oracolo faceva volare la fantasia di José, tanto da fargli superare l’imbarazzo iniziale di cominciare a scrivere qualcosa su un foglio di quaderno, che poi ogni volta strappava, quando si rendeva conto che lui della vita, tutto sommato, non ne sapeva nulla. In fondo, il mondo era uno spazio ben più grande di quel piccolo paese nel quale aveva sempre vissuto.
Giuseppe D’Arcadia aveva tredici anni quando iniziò a lavorare nel mulino dei nonni con suo cugino. Indossava un camice corto e sottili calzari copriscarpe, accanto, suo cugino Filippo versava il grano nella mola, con i sandali ai piedi e con un camice più lungo, mentre lui raccoglieva la farina. Entrambi avevano i tratti del viso disegnati, gentili, eppure forti. La scena sembrava un dipinto bucolico d’altri tempi, che rimandava la memoria ad un sapore di antico, a qualcosa di sano e di buono, con un significato profondo che al giorno d’oggi è difficile comprendere.
«Sembrate Mosè che versa il grano nella mola e San Paolo che raccoglie la farina! Come diceva sempre mio padre, buonanima! Sbrigatevi! Che lentezza, benedetto Iddio! Quanto tempo sprecate! Di questo passo, faccio prima a morire e rinascere, prima di veder finito il vostro lavoro!» disse il nonno con tono burbero. Il mulino era quel luogo dove il passato e la tradizione di famiglia si tramandavano di generazione in generazione, attraverso il duro lavoro. Quel luogo magico era un laboratorio di alchimia in cui il grano grezzo diventava soffice farina bianca, che ogni giorno veniva impastata da decine di fornai i quali preparavano il pane, il miglior pane della zona, che nutriva e dava energia a tutti. Il pane era un vero dono di Dio, frutto della terra e del duro lavoro di contadini, mugnai e fornai.
Nel mese di luglio, durante il periodo della raccolta del frumento, i granai erano stracolmi, e quando tutte le macchine erano ferme e il nonno burbero era rientrato in casa, i due ragazzi ne approfittavano per entrare di nascosto nei magazzini con altri coetanei adolescenti. Solo quando si erano assicurati di non essere visti si toglievano le scarpe per restare a piedi nudi, e dopo essersi rimboccati i pantaloni per bene, erano soliti fare il bagno nel grano. Nella loro immaginazione, i granai diventavano allora come il mare, come delle immense piscine, la cui profondità andava da tre palmi di mano fino a cinque metri ed oltre. In quel grano maturo e soffice era bello nuotare, farsi massaggiare, lasciarsi trasportare. Quello era il momento per tuffarsi in quel mare dorato, farsi sommergere dai chicchi d’oro, per raggiungere quei sogni che erano rimasti appesi agli alberi spogli e senza foglie per tutto l’inverno. In quei giorni di raccolta, per quei ragazzi, era come se fosse arrivata già la festa del santo patrono del paese. Si restava svegli e si festeggiava fino a tarda notte, per finire a rimirare le stelle nel cielo. Dall’alba in poi, nel vecchio mulino, sarebbero ricominciati i viavai di camion, trattori, carretti e l’aria d’estate si sarebbe caricata ancor di più di odor di grano, un’aria che avrebbe profumato di pane le stagioni di un intero anno. Ma José era ignaro del significato del grano, non conosceva la mitologia e non conosceva Demetra, simbolo della fecondità e delle messi, che sanciva il passaggio dell’anima dall’ombra alla luce, e non ne sapeva nulla neppure di Osiride, la divinità egizia rappresentata dalla spiga di grano. Eppure ogni anno, durante la raccolta, una corona composta da ventotto spighe veniva posta all’ingresso del mulino. Allo stesso modo non immaginava quando sarebbe giunto il tempo della prossima mietitura, neppure poteva intuire che simbolicamente il grano avrebbe rappresentato tutta la sua vita. Lo spirito del grano era la vita stessa, era il pane della vita perché quel seme, morendo a se stesso, sarebbe rinato come spiga nella terra, moltiplicato in innumerevoli chicchi di un grande raccolto. […]
Nel 2000 il regista inglese John Madden lo sceglie per il film “Captain Corelli’s mandolin”, dove lavora a fianco di Nicolas Cage e Penelope Cruz. Come film-maker ha vinto diversi festival internazionali con i documentari “Valigie di cartone. The italian dream” (2005) e “Secretum Secretorum. The celestinian code” (2009), la storia di Celestino e della città dell’Aquila, che racconta la Perdonanza Celestiniana oggi ufficialmente Patrimonio culturale immateriale UNESCO.
Come regista ed autore la sua ultima opera filmica è “La via dell’Angelo”, un viaggio iniziatico sui luoghi dell’Arcangelo Michele basato sugli scritti di Maria Grazia Lopardi. Lavora per terminare la scrittura e la produzione di altri film come “La profecía del Águila y del Cóndor”, ispirato alle opere del compianto e caro amico scrittore peruviano Hernán Huarache Mamani e che vede la presenza di sciamani e guaritori di tutto il mondo.
Ha incontrato diversi Maestri spirituali e delle principali religioni, formandosi negli ultimi anni con la scuola dell’Albero della vita di Mosca, studiando la cabala mistica ebraica e seguendo seminari con alcuni tra i migliori ricercatori spirituali internazionali.
Germano Di Mattia segue un percorso professionale libero ed indipendente, con l’intento di portare alla luce antiche e moderne verità, attraverso tutte le sue attività artistiche. È attento all’arte come espressione della bellezza dello spirito, per esortare l’evoluzione delle coscienze, che dovrebbe essere la missione ultima di ogni artista sincero.