Mi chiamo Bisonte Che Corre, più che l’autobiografia dell’autore, è il percorso di un uomo da un mondo – il nostro -, fatto di gretto materialismo, egoismo, spirito di competizione, brutale cinismo e individualità, valori sempre più scadenti; a un altro – quello dei Nativi Americani -, fondato sulla correlazione, l’amore e il rispetto per ogni forma di vita.
In tal senso, Enzo Braschi racconta la sua infanzia povera ma dignitosa; le sue prime esperienze nel mondo dell’arte; gli anni della dura gavetta dolorosamente vissuti al fine di raggiungere la propria affermazione nell’ambiente dello spettacolo, fino alla presa di coscienza di un sempre più crescente vuoto e disagio personali.
Riesce a gettarsi alle spalle questa situazione solo attraverso l’amore per l’antica cultura dei Nativi Americani, i cosiddetti Indiani, prima imparandola sui libri, quindi vivendola sul “campo”, partecipando a sacre cerimonie che gli svelano la loro profonda spiritualità che per sempre cambierà la sua vita.
Mi chiamo Bisonte Che Corre (questo il nome dato all’autore dai suoi amati indiani) è dunque la storia toccante, poetica, commovente, ma soprattutto vera, di un nuovo Ulisse prepotentemente spinto a fare ritorno alla sua casa, le sue radici, la sua patria: non più Itaca, ma quella che i Lakota Sioux, i Cheyenne, i Blackfoot, gli Apaches, gli Hopi, e via dicendo, chiamano semplicemente la “nostra sacra Madre Terra”.
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo I
Ci sono giorni, d’estate, che l’aria non c’è. Anche respirando, senti che l’aria non c’è. Nei polmoni butti qualcosa, quello che ti consente di vivere, ma l’aria non c’è. Neanche i passeri fanno voce, niente vola nel cielo, le rondini non ci sono più. Le rondini.
Ti chiedi, sollevando gli occhi al blu: ma dove sono finite le rondini? Dove si sono nascoste d’improvviso?
Non c’è una voce nella piazza del paese, il caldo è opprimente ed è la sola cosa che riempia tutte le cose.
A stare seduti all’ombra, su una panchina con nessuno al mio fianco, si patisce: non è solo il caldo, ma l’assenza della vita stessa. Eppure si vive: noi esseri umani, gli alberi, l’erba, gli animali, le pietre, il cielo, le nuvole… Tutto è fermo, statico, sospeso, senza né valore né prezzo, tutto è colmo di silenzio che in silenzio continua ad avere vita.
Oggi sono come quest’aria, oggi sono morto, spento, eppure acceso come un fuoco che arde e mai si estingue. Oggi sono immerso nel “non c’è nulla” e “c’è ogni cosa”.
Esistono molte forme di malinconia, come questa che distillo nelle vene goccia dopo goccia e che mi riempie stomaco e cuore e mi fa riflettere.
Esistono molte forme di nostalgia, come questa che mi fa rimpiangere una, due, dieci, tante vite che avrei voluto sfidare e che mi sono sfuggite tra le dita come fine sabbia dorata. In futuro si presenteranno altre occasioni per viverle, quelle vite, a meno che non ce la si faccia a riviverle tutte in una sola.
Si può fare. Buddha insegna che questo stato dell’anima si chiama illuminazione. Non ambisco a tanto, ma ambisco a tanto. Chiunque, volendo, può farcela, se vuole. La fede muove le montagne, ha detto qualcuno tempo fa. Il problema è che bisogna avere fede, cioè la certezza di muovere le montagne, non la puerile speranza di farcela.
Non so.
Queste due parole le dirò ancora più avanti.
Avevo giurato a me stesso che non avrei più scritto neanche una parola.
A che serve scrivere, specialmente oggigiorno?
Quello che si doveva imparare è stato già insegnato a suo tempo da grandi sapienti; quello che si doveva scrivere, dipingere, scolpire, fare di musica è già stato fatto in maniera sublime, e non tornerà più. Credetemi, mai più si ripeteranno certe cose.
Non c’è più nulla da dire a proposito della Bellezza, dalla Bellezza ne siamo tutti fuori, separati per sempre. Eppure, talvolta, siamo ancora così vicini alla Bellezza che quasi ci pare di poterla toccare con un dito.
I Navajo, o meglio Dinè, del Sudovest degli Stati Uniti d’America, fondano il loro modo di vivere sul rispetto di tutto ciò che ci circonda. Le loro antiche cerimonie si basano su quella che potremmo definire guarigione, ovvero: il riuscire a stare in perfetto equilibrio con noi stessi e con il Tutto. Se ciò non avviene, si crea la malattia. È collocandosi perfettamente al centro di questi due opposti, affermano i Navajo, che l’uomo apprende cosa significhi “Camminare nella Bellezza”, che nella loro lingua si dice: sa’ah naaghai bik’eh hozho.
E invece mi ritrovo a scrivere. Nella speranza che quel che ho da dire potrà domani venire condiviso da altri? Che se mai le mie parole divenissero un libro, quel libro mi dia fama, successo, denaro?
In verità, di tutto questo non me ne importa un bel niente, che ci si creda o no. Queste aspirazioni, certi fantastici sogni di gloria li lascio a chi ancora è convinto possano dare un senso concreto alla sua vita.
Quando ero un ragazzo, leggendo i “maestri”, i grandi scrittori che hanno fatto la Storia della Letteratura del mondo intero, attraverso le loro parole commuovendomi e arricchendomi, pensavo che scrivere fosse un dono, un raro talento disceso dall’Alto, dallo Spirito, affinché buone cose venissero offerte da quegli eletti all’umanità intera.
Un dono.
Un raro talento.
E un terribile castigo, perché alla fine, e tuttora la penso così, consideravo che quei prescelti fossero nelle mani di un demone che li legava a una sedia per obbligarli a fare quello che probabilmente quei prescelti, quegli “eletti”, non avrebbero voluto fare, perché di quel “fare” non volevano esserne schiavi. Fuori dal loro studiolo tetro e triste, drappeggiato di porpora, c’erano la vita, le donne, il godimento, i piaceri.
Gli antichi greci, quel demone lo chiamavano daimon, non riferendosi affatto a un’entità negativa, un demone come diremmo noi, bensì a uno spirito buono, una sorta di angelo custode che si affianca a ogni anima, al momento della sua nascita, al fine di consigliarla, proteggerla e aiutarla a portare a compimento il programma che quell’anima, ovvero ognuno di noi si è scelto prima di incarnarsi ancora una volta in un nuovo corpo.
Stiamo parlando del filosofo Platone e di metempsicosi, di trasmigrazione delle anime, di reincarnazione.
Il daimon – o se preferite l’angelo custode della religione cattolica – ci starebbe dunque vicino dal momento della nascita fino all’ultimo dei nostri respiri esclusivamente per il nostro sommo bene, esigendo da noi quanto da noi chiesto a lui prima di tornare a vivere una nuova vita quaggiù.
Ma ci sono giorni, d’estate, che l’aria non c’è, giorni in cui il tamburo batte lento, sospeso a mezz’aria, tra le tue gambe e la terra, e non puoi fare a meno di ascoltare quella musica che suona solo per te e ti chiede di danzare al suo ritmo.
Oggi però non è estate, è inverno, e fuori dalle finestre è neve. Non è una bella nevicata, di quelle fitte che non vedi a più di un metro, come me le ricordo da bambino, e vorrei che fosse ancora quell’età.
Speduncola, la neve, pigra e stupida, da un cielo grigio e non compatto, per niente deciso, né caparbio, né fatto di buona volontà. È forse che il cielo oggi non ha intenzione di mostrare il suo carattere.
Triste.
Triste perché se è tempo di neve, il tempo deve saper nevicare.
I tempi indecisi tolgono energia anziché darla.
C’è un tempo per la neve e un tempo per il sole che arde la pelle e secca la gola.
Le mezze misure sono un amore mal consumato, un’anguria marcita prima di essere gustata del suo rosso e del suo zucchero.
Le stagioni sono state tradite, Madre Terra fa fatica a essere amata come una volta. È, oggi, una danza senza più battiti cadenzati, senza più un regista, e danzatori con braccia e gambe e corpi che non sanno più muoversi come si deve, che non si ricordano più del ritmo, del tempo, dell’improvvisazione, del sangue che pulsa nelle vene.
La ferita dei non amati.
La ferita che mai si rimargina.
Tutto questo per dire ancora una volta che non sto pensando di scrivere un libro – e semmai è sempre un libro che ha intenzione di scrivere te –, ma che scrivere a volte è solo una ragione per sopravvivere, visto che la vita, non di rado, non è affatto un dono da godere a piene mani.
In giorni come questi scrivere è una voglia di raggomitolare i ricordi del passato per riportare alla luce cose nascoste tra le pieghe del tempo.
Quali splendidi giorni, quale fulgida età quel fiore che non sfiorisce e ti sussurra all’orecchio che domani sarà un giorno ancora più radioso di quello appena trascorso.
Mia madre era un pane. Un pane appena sfornato da un padre che era un fornaio, nata a Pian Camuno, un piccolo paese della Val Camonica fatto di un pugno di povere case, una chiesa e una piazza, e strette strade di acciottolato che all’imbrunire cantavano sotto gli zoccoli delle mucche che tornavano dal pascolo per andare ad abbeverarsi alla fontana. In verità, di fontane ce n’erano due a Pian Camuno, con un’acqua di sorgente che sgorgava da un tubo conficcato tra antiche pietre tenute insieme da una sottile stesa di malta. Tutto intorno era stata tirata su una vasca dove di giorno le donne andavano a lavare i panni col sapone Sole – prima che l’avvento massiccio dei detersivi lo facesse uscire di scena –, e la sera vi andavano a bere le vacche. Quell’acqua era pura e tanto gelida da fare appannare i bicchieri in un attimo.
La seconda fontana, più grande della prima, si trovava nella parte più alta del paese, distante forse appena un centinaio di metri dalla casa dove era nata mia madre.
A quel tempo l’acqua corrente non c’era nelle case, per cui la si andava a prendere alla fontana con grandi secchi di rame. Una volta, forse a sette, otto anni, volli provarci anch’io a caricarmi sulle spalle l’arconcello coi due grandi secchi colmi d’acqua. Col risultato che, perso l’equilibrio a causa del loro peso, precipitai nella vasca a testa in giù. L’acqua mi parve ancora più gelida di quanto fosse bevendola dal mestolo. Quella fontana si chiamava Fontana Vecchia.
[…]
Enzo Braschi, dopo la laurea in Filosofia con una tesi sulla spiritualità dei nativi americani delle Grandi Pianure, si dedica al mondo dello spettacolo divenendo un apprezzato attore televisivo e cinematografico.
Autore di vari documentari sugli Indiani d’America, dal 1996 al 2003 prende parte alla Danza del Sole – la cerimonia più sacra dei nativi – fra i Lakota di Cheyenne River e Rosebud. Dopo avere ricevuto una visione, riceve il suo nome indiano (“Bisonte Che Corre”) dal capo della nazione Blackfoot Rufus Goodstriker.
Ha pubblicato, fra gli altri, La conoscenza segreta degli Indiani d’America, Il popolo del Grande Spirito, Sono tra noi, Il cerchio senza fine (Mursia), Vicini alla Creazione e Figli del tuono (Idea libri), Di terra e di luce e 2012. L’anno del contatto (Barbera edizioni).
5 Commenti su “Mi chiamo Bisonte che Corre”
vorrei contattare l,autore del libro Enzo Braschi per organizzare una conferenza o un seminario in Trentino in Val di sole o chi si occupa di gestire il suo lavoro potrebbe contattarmi per dare indicazioni il mio commento su questo libro e’ il seguente: mi ha commosso fatto ridere e mi ha lascito una grande nostalgia.ho ascoltato Enzo Braschi alla sua conferenza aModena,ma devo dire che mi piace molto di piu come scrittore perche e’ un grande poeta e nella scrittura riesce ad esprimere la sua grande umanita’ e sensibiita’ e a farci partecipi della bellezza della vita
Non lo conosco personalmente ma immagino sia un uomo di grandi doti che e’ riuscito a dare un senso alla sua vita.
Il successo,le ambizioni,l’egoismo ci portano alla perdita dei valori piu’importanti. ( il rispetto, l’onesta’,la famiglia, l’amore).
Si rimane “vuoti” nell’anima e nello spirito.
grazie
Un altro ottimo testo di questo autore che ha saputo portare la conoscenza dei nativi americani a chi ha la voglia e il coraggio di imparare da loro. Come sempre, grazie!!!
Ho letto questo libro di Enzo Braschi, anzi, l’ho bevuto in un pomeriggio perché dopo le prime righe non sono più riuscita a staccarmene. Mi sono commossa alle lacrime, l’autore mette a nudo la sua vita e la sua anima, e che bell’anima! Parla di se, dall’infanzia travagliata degli anni 50 fino all’incontro con i nativi e la conseguente conoscenza profonda di se a cui tutti aspiriamo. L’amore dei nativi ed il rispetto che hanno per la natura e per la terra che ci ha generato è un faro in questa oscurità in cui brancoliamo, l’autore ci offre una visione dall’interno di questa società che ha avuto la fortuna di conoscere e di frequentare. Riconoscente per questo dono consiglio vivamente la lettura di questo prezioso libro a chi ha il cuore e la mente aperti per poterlo ricevere.
Mita-Kiasjn
Mita-Kuye Oyasjn.